Gli oceani si innalzano e gli imperi crollano. Una critica alla geopolitica moderna

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Le competizioni geopolitiche tra nazioni alimentano la crisi climatica e pongono freni alle sue possibili soluzioni, rallentando lo sviluppo di tecnologie verdi e impedendo il raggiungimento di accordi tra Stati per il clima.

Ma è nella stessa visione geopolitica moderna, dove la Terra è vista come un territorio da conquistare, che si nascondono le cause profonde che hanno portato al cambiamento climatico.

Nel suo libro “Oceans rise empires fall” pubblicato nel 2024 dalla Oxford University Press, Gerard Toal, professore di Affari internazionali al Virginia Tech di Washington Dc, racconta le origini del termine “geopolitica” dalla Germania nazista fino ai moderni conflitti in Medio Oriente e in Ucraina. Lo abbiamo intervistato

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Professor Toal, a causa della guerra in Ucraina e del riaccendersi dei conflitti in Medio Oriente il termine “geopolitica” è tornato a occupare uno spazio predominante nel dibattito pubblico. Tuttavia, come ricostruisce nel suo libro, non si tratta di un termine neutrale. Qual è la sua storia?
GT Si tratta di un termine che, almeno nella sua accezione in lingua inglese, è legato alla Seconda guerra mondiale e alla reazione del mondo angloamericano all’ascesa del Terzo Reich. Le sue origini sono legate a una teoria della cospirazione sulla relazione tra Karl Haushofer, generale e politologo tedesco, e Adolf Hitler, secondo la quale Haushofer sarebbe stato la mente dietro l’ascesa del Fuhrer. Haushofer era professore all’Università di Monaco e aveva tra i suoi ammiratori Rudolf Hess (uno dei più influenti gerarchi di Hitler, ndr). E grazie a lui Haushofer incontrò Hitler durante la sua prigionia in seguito al fallito Putsch (colpo di stato) del 1923, insegnandogli le idee di Friedrich Ratzel (etnologo e geografo tedesco di fine Ottocento, ndr) e i concetti della geopolitica tedesca. Haushofer prende il termine “geopolitica” da Rudolf Kjellen, un conservatore svedese filotedesco e lo trasmette a Hitler insieme alla preoccupazione di Ratzel che la nazione tedesca acquisisca il “lebensraum” (lo spazio vitale) che le spetta, un termine che Hitler integra presto nella sua visione del mondo e nel suo programma per la Germania. Il legame Haushofer-Hitler era reale. Ma diventa una teoria della cospirazione perché, quando Hitler invase l’Unione Sovietica nel 1941, i rapporti tra i due si erano deteriorati. La geopolitica diventa un oggetto di fascino per gli Stati Uniti, come qualcosa che è tabù perché legato al nazismo, ma che contiene idee che devono essere utilizzate.

Qual è il rapporto tra tensioni geopolitiche e cambiamento climatico?
GT I conflitti tra grandi potenze contribuiscono ad accelerare il cambiamento climatico. Ma se quest’ultimo aggravi la competizione geopolitica è un altro tema. Il libro di Sherri Goodman (esperta di sicurezza e avvocata statunitense, ndr), “Threat Multiplier”, tratta del cambiamento climatico e della lotta per la sicurezza globale. È stata lei a proporre l’idea che il cambiamento climatico sia un “moltiplicatore di minacce”. La frase riflette il modo in cui la comunità strategica pensa al cambiamento climatico, come qualcosa di esterno che rappresenta una sfida per la gestione della sicurezza. Sono molto critico nei confronti di questa idea. La minaccia viene dal modo in cui le grandi potenze perseguono la loro sicurezza, la vasta dipendenza dai combustibili fossili dei loro complessi militari-industriali accelera la crisi climatica. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, il Pentagono è un enorme emettitore di gas serra nella produzione di sicurezza. Ma queste stesse emissioni finiscono per generare insicurezza, destabilizzando il Pianeta e il clima. La visione del cambiamento climatico come moltiplicatore di minacce fa sì che l’industria bellica venga rilegittimata, questa volta con la missione umanitaria di combattere le conseguenze di queste perturbazioni. La geopolitica ha catturato il cambiamento climatico, subordinandolo alla sua logica. La sicurezza climatica, di conseguenza, è una sicurezza funzionale alle pratiche esistenti. Bisognerebbe promuovere invece una “sicurezza ecologica” che si fonda sul prevenire il cambiamento climatico con un approccio a livello planetario. E che richiede inevitabilmente sforzi di collaborazione da parte delle grandi potenze e una de-escalation su tutti gli altri fronti.

Gerard Toal

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Gerard Toal

Lei afferma che gli attriti tra le grandi potenze ostacolano gli accordi a favore del clima. È vero?
GT L’azione collettiva per il clima è stata per lo più subordinata a ragionamenti geopolitici e geoeconomici. Nel 2021, la Casa Bianca ha organizzato un vertice sul clima e l’allora presidente Joe Biden ha tenuto un discorso in cui ha affermato stiamo affrontando “il decennio decisivo” per la decarbonizzazione, facendo eco al rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Ma il suo Consiglio di Sicurezza Nazionale aveva già usato la stessa espressione per descrivere la competizione degli Stati Uniti con la Cina. Non si trattava necessariamente di una guerra, ma di una competizione geoeconomica, perché la Cina cercava di costruire un dominio nelle industrie manifatturiere del futuro. In particolare, per quanto riguarda la tecnologia pulita, la produzione di veicoli elettrici, di batterie e di pannelli solari e degli strumenti per gestirli. E gli Stati Uniti l’hanno interpretato come una minaccia. Pertanto il decennio decisivo è diventato quello per cercare di impedire alla Cina di sviluppare queste industrie, ad esempio, ostacolando la vendita di veicoli elettrici in Europa e negli Stati Uniti. L’agenda sul cambiamento climatico è stata quindi tradotta in politica industriale. E questo non solo ha avuto effetti negativi per il Pianeta ma si è rivelata anche una cattiva strategia, perché l’Inflation reduction act (Ira), l’iniziativa sul clima dell’amministrazione Biden, ha portato a una significativa costruzione e a investimenti in tutti gli Stati Uniti soprattutto negli Stati dell’area repubblicana, ma non a una crescita del numero dei produttori. Di conseguenza, l’amministrazione Biden ha scommesso che quelle persone avrebbero votato democratico per proteggere gli investimenti. Ma ovviamente non è successo. E ora questi Stati vogliono compiacere Trump, ma sono anche interessati ai finanziamenti che hanno ricevuto come conseguenza dell’Ira. Tutto questo per dire che la lotta al cambiamento climatico si è tradotta immediatamente in politica competitiva, geoeconomica, industriale. E lo vediamo ogni giorno non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa.

È possibile sostenere che proprio la visione del mondo sottesa al termine “geopolitica” contenga gli stessi principi che hanno causato e che alimentano il cambiamento climatico?
GT Esatto. L’idea di geopolitica si basa su tre concetti: il primo è che la Terra è un deposito di risorse per l’uso umano. E che esiste una separazione il Pianeta e le persone che lo abitano. La seconda è che questo può essere suddiviso in proprietà da conquistare o vendere. Infine, la geopolitica guarda alla Terra come a una scacchiera o come una griglia che deve essere dominata. Ci sono alcune caselle che devi possedere, che devi difendere, e ci sono altre aree per le quali sei in competizione con i tuoi nemici. L’egemonia di questo modo di vedere ci rende ciechi di fronte alle realtà materiali del cambiamento climatico. Non capiamo ciò che vediamo con i nostri occhi perché pensiamo in modo geopolitico e non ecologico.

Il cambiamento climatico sta diventando una minaccia esistenziale per l’umanità. Come possono gli Stati uscire da queste retoriche e trovare una strategia comune ed efficace?
GT Credo che ci siano alcuni motivi di ottimismo, ed è quello che ho cercato di suggerire verso la fine del libro. Non siamo necessariamente destinati a competere l’uno con l’altro. I Paesi si stanno muovendo verso la decarbonizzazione. La Cina è responsabile di un terzo delle emissioni globali, ed è impegnata in un programma aggressivo per cercare di ridurle. Non semplicemente perché pensa che sia un bene per il Paese, ma perché vuole porsi come leader mondiale, come centro di una nuova civiltà ecologica. E con il ritorno di Trump al potere, c’è una grande opportunità per Pechino per poter ricoprire davvero questo ruolo. Si tratta di un’enorme sfida ingegneristica e di risorse. Una sfida che stanno cercando di condividere con i Paesi in via di sviluppo, Paesi che in cui le emissioni sono previste in crescita. L’Indonesia, che produce grandi quantità di carbone, ha compreso che deve ridurre la sua produzione di questo combustibile. In conclusione, credo che le crescenti evidenze scientifiche sul cambiamento climatico stanno portando a creare un contesto culturale che capisce l’importanza della decarbonizzazione e non tollera le fantasie dei negazionisti climatici.

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