GIUSTIZIA/ Quel “malcontento” nell’Anm che suggerisce alla Meloni di non fare come Trump

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Resta molto caldo il fronte giustizia, che anzi sembra allargarsi a dismisura. In primo luogo resta aperta la vicenda Almasri con la Corte penale internazionale (CPI) che ha formalizzato l’accusa al nostro Paese di non aver consapevolmente “rispettato l’obbligo di collaborare”, facendo in modo che il presunto assassino e torturatore tornasse liberamente in Libia. Il procuratore dell’Aia ha infatti chiesto il deferimento dell’Italia all’Assemblea degli Stati e al Consiglio di sicurezza dell’Onu per non aver rispettato l’articolo 87 del trattato di Roma, che al comma 7 prevede che “se uno Stato non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni”, finisca sotto procedimento.



Il procuratore ha ricostruito tutta la storia di Almasri indicando i diversi errori e i numerosi buchi e soprattutto le omissioni che il governo Meloni avrebbe messo in fila fino a questo momento. Ciò che più rileva è che sin dal principio, il governo si è sempre rifugiato nella circostanza, vera, che sia stata la Corte d’appello di Roma a scarcerare il presunto torturatore libico sulla base di un’interpretazione della legge in virtù della quale era obbligatoria una interlocuzione preventiva – mai avvenuta – tra il tribunale e il ministero della giustizia.

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Ebbene, nell’atto di deferimento si legge che, pur ammettendo tale premessa, si palesa una grave mancanza da parte del nostro ministero, che avrebbe dovuto rispondere alla richiesta del procuratore generale e trasmettere il 20 gennaio le richieste al tribunale, cosicché la Corte di appello di Roma avrebbe potuto ordinare nuovamente la misura cautelare di Almasri. Ecco perché, sostiene il procuratore Khan, la decisione del ministero di non trasmettere le richieste al procuratore generale il 20 gennaio, come richiesto dallo Statuto, equivale a un mancato rispetto di una richiesta di cooperazione e da qui il deferimento. Insomma, un gran bel pasticcio.



Come non bastasse, il caso Almasri sembra far coppia con la vicenda Graphite, lo spyware infilato nel telefonino di giornalisti e attivisti che ha portato alla decisione di sospendere l’uso del sistema israeliano in dotazione a Aisi e Aise, sebbene resti ancora ignoto chi lo abbia impropriamente impiegato.

Entrambi i casi paiono emblematici di una gestione caotica e al contempo fortemente accentratrice di Palazzo Chigi, come dimostrato altresì dall’attività di controllo sul capo di gabinetto di Chigi, Gaetano Caputi, che ha poi portato come ulteriore conseguenza la scelta del governo di far presentare dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), per la prima volta nella storia, un esposto >contro il procuratore capo di Roma Lo Voi per l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto. I pasticci sembrerebbero passare a tre, iniziando a essere lunga la sequenza di gestioni anomale che ben avrebbero potuto portare a far traballare più di una poltrona. Così pare non essere.

E a proposito di poltrone, non è in pericolo neanche quella del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, dopo la condanna per rivelazioni di notizie che dovevano rimanere segrete. Unanime il coro elevato dalla maggioranza per sostenere che i giudici di sinistra vogliono colpire la riforma della giustizia, mentre il ministro Nordio ha persino usato parole di encomio auspicando una riforma della condanna in appello. È bastata un’altra sentenza sgradita per far perdere di nuovo le staffe alla politica con l’inevitabile attacco alla magistratura.

Il conflitto istituzionale tra politica e magistratura è ben lontano dallo scemare insomma, nonostante il paradosso che la Procura, rappresentata da un pubblico ministero progressista come Paolo Ielo, abbia chiesto l’assoluzione; argomento questo a sua volta usato “a rovescio” dall’Anm per sostenere come la separazione delle carriere di fatto già esista, evidenziando il solito sconcerto nei confronti di un “potere esecutivo che attacca un giudice per delegittimare una sentenza”.

Scaramucce a parte, il punto cruciale, tuttavia, resta legato a fin dove può portare uno scontro che non riesce a trovare un simulacro di dialogo. L’auspicio non può che essere che qualche spiraglio possa larvatamente aprirsi, per esempio grazie al cambio ai vertici dell’Anm che ha portato alla guidata un magistrato fautore del dialogo come Cesare Parodi. Membro della corrente più moderata di Magistratura indipendente, non a caso appena insediato Parodi ha chiesto un incontro con la presidente del Consiglio, subito concesso dalla Meloni, la quale, a sua volta, coltiva la malcelata speranza che il cambio di guida dell’Anm possa scalfirne unità e compattezza.

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Certo, lo sciopero indetto per il 27 febbraio resta confermato, ma si affaccia l’incognita della percentuale di adesioni. La protesta non sta raccogliendo l’adesione unanime che qualcuno si aspettava e il timore che lo sciopero non raccolga numeri plebiscitari inizia a serpeggiare tra le toghe.

Qui occorre spiegarsi: non si tratta di condividere o meno la riforma, che la categoria osteggia incondizionatamente; piuttosto va registrato come più di qualcuno sussurri che scioperare contro una prerogativa del Parlamento sia un atto politicamente azzardato, una mossa che rischia di esporre la magistratura a nuove critiche.

A rafforzare questi timori sarebbe anche il modo in cui l’Anm sta gestendo la protesta. Non è passato inosservato, infatti, il tentativo di raccogliere in via preventiva i nominativi di chi parteciperà allo sciopero, attraverso un modulo che sembra rappresentare un modo per avere il controllo sulla situazione.

Ma al di là delle strategie di gestione dello sciopero, ciò che emerge con forza è un malessere profondo all’interno della categoria. Nelle assemblee delle sottosezioni dell’Anm non sono mancati magistrati che hanno preso la parola per esprimere il proprio dissenso. Alcuni di loro hanno dichiarato apertamente di non voler aderire alla protesta, evidenziando come sia mutato il rapporto tra magistratura e opinione pubblica, avendo la categoria perso credibilità al punto da dover prendere atto di non essere gli unici paladini della democrazia.

Qualcuno, e si potrebbe dire finalmente, inizia a riconoscere che aver difeso la categoria a oltranza senza mai riconoscere le proprie responsabilità è stato un grave errore. Altri, ancora più a bassa voce, ammettono che il clima interno si sia fatto pesante e che dissociarsi dallo sciopero significherebbe esporsi, sfidare l’approccio rigido della magistratura che non può permettersi di mostrare cedimenti.

La sensazione è che insomma il modo in cui la magistratura ha affrontato le recenti riforme del sistema giudiziario, rinunciando al confronto, preferendo chiudersi in una posizione di resistenza assoluta, inizia a mostrare le prime crepe, con l’emersione di chi preferirebbe un approccio più realistico, che tenga conto del contesto politico e delle possibilità concrete di influire sulle scelte legislative.

Da una parte della categoria si registrano i primi segnali di stanchezza, con il sotteso auspicio di un approccio più pragmatico in cui, magari, si possa riconoscere, come da queste pagine andiamo dicendo già da un po’, che la separazione delle carriere nella sua configurazione astratta non si presenta affatto contraria a quel principio ideale di parità delle parti che va perseguita nel processo penale, ma che tuttavia essa dovrebbe rispettare una condizione precisa, che è quella di non aprire la strada ad una dipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico. Per evitare questa possibile distorsione esistono, peraltro, tanti strumenti di cui la riforma, con alcuni correttivi adeguati, potrebbe farsi carico, garantendo ad esempio la neutralità nella composizione degli organi di autogoverno e di controllo disciplinare dei magistrati inquirenti.

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Forse arriverà prima o poi l’ora in cui ci si potrà sedere e discuterne con pacatezza; nel frattempo la vera scommessa è verificare se la premier sarà in grado di approfittare di queste crepe per imbastire un vero dialogo di cui il Paese avrebbe bisogno oppure se, al contrario, ella sarà risucchiata dalla tentazione di andare allo scontro diretto, secondo i peggiori diktat della dottrina trumpiana.

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