Francesco Vignarca: “Non si arriverà a un accordo di pace senza il coinvolgimento diretto dell’Ucraina nelle trattative”. E sull’Europa: “Ha sbagliato a puntare solo sulla soluzione militare. Ora fermi la corsa al riarmo e torni alla politica”. Intervista a Francesco Vignarca. Coordinatore delle campagne della Rete Pace e Disarmo
(di Davide Falcioni – fanpage.it) – “Donald Trump e Vladimir Putin stanno facendo solo i propri e rispettivi interessi. Ma non si potrà arrivare a una vera pace senza il coinvolgimento dell’Ucraina e senza ascoltare gli altri attori globali, che considerano quello attuale un sistema squilibrato e ingiusto”. A dirlo a Fanpage.it Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Pace e Disarmo, secondo cui dalla guerra “l’Europa esce a pezzi politicamente, diplomaticamente ed economicamente” soprattutto per sue precise responsabilità e per aver rinunciato al suo fondamentale ruolo di mediazione.
A tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, e dopo centinaia di migliaia di morti sui campi di battaglia, la scorsa settimana sono iniziate le febbrili manovre diplomatiche per porre fine al conflitto o quantomeno per arrivare a un cessate il fuoco. Gli Stati Uniti, che fino a pochi mesi fa consideravano la Russia uno Stato da sconfiggere militarmente e da punire con dure sanzioni economiche, oggi hanno cambiato nettamente strategia. Washington e Mosca sono tornate a parlarsi e le bordate della Casa Bianca non sono più rivolte al Cremlino bensì a Kiev, con Volodymyr Zelensky definito un “dittatore e un comico mediocre”.
È in questo quadro a tratti surreale che discute di una fine delle ostilità, con l’Europa a fare da spettatrice e il timore che Trump e Putin finiscano per imporre a Kiev una pace troppo ingiusta per essere stabile e duratura.
Dottor Vignarca, la Rete Pace Disarmo ha sempre sostenuto che non ci sarebbe mai stata una soluzione militare al conflitto in Ucraina. Da dove traevate questa convinzione nel febbraio del 2022?
Traevamo le nostre convinzioni da due elementi. Il primo è che conosciamo le guerre, perché da sempre le nostre organizzazioni si occupano della loro prevenzione e del mantenimento della pace. Sappiamo che le motivazioni che portano alla scelta di imbracciare le armi sono profonde, e che occorre lavorare su di esse se si vuole davvero ricomporre un conflitto. È evidente che le armi non risolvono niente, non portano pace e stabilità, a meno che per pace non si intenda una “tabula rasa”.
Il secondo elemento è che la guerra in Ucraina non era iniziata il 24 febbraio 2022 e soprattutto che non si limitava solo a quel Paese. Sappiamo bene che c’erano tensioni geopolitiche molto più ampie tra le grandi potenze e che l’Ucraina era solo uno dei terreni in cui queste tensioni si sono manifestate.
Per queste ragioni fin dall’inizio, alla conferenza che tenemmo a Vienna con la Società Civile Internazionale, dicemmo che questo tipo di guerra – inclusa quella in Ucraina – non è che un epifenomeno di un sistema globale squilibrato e ingiusto. Di conseguenza, oltre a negoziati diretti tra le parti in causa, bisognava lavorare a una grande conferenza internazionale di pace per una soluzione di sicurezza globale condivisa.
Da alcuni giorni Putin e Trump hanno avviato dei dialoghi, ma da quei dialoghi stanno escludendo Kiev e l’Europa. Cosa pensate di queste modalità? E a cosa credete siano finalizzati davvero i negoziati in corso?
È scesa in campo la diplomazia e i soggetti che stanno discutendo – Russia, Stati Uniti e in particolare i loro leader Putin e Trump – stanno facendo i rispettivi interessi. Col cambio di amministrazione gli interessi americani in Ucraina sono cambiati, di conseguenza il sostegno militare a Kiev è stato interrotto. Mosca intanto rivendica la sua centralità e, al di là dell’espansione territoriale e della retorica sulla paura della Nato, chiede di tornare a essere uno dei player mondiali più forti.
Purtroppo è evidente che escludere l’Europa ma ancora di più l’Ucraina da quel tavolo significa che non si sta discutendo di una pace vera, e neanche di una pace limitata agli aspetti diplomatici di un armistizio. Dalla guerra il nostro continente esce a pezzi politicamente, diplomaticamente ed economicamente.
Una pace “imposta” a Kiev può ambire a essere una vera pace e soprattutto una pace duratura?
La pace non è mai imposta ma per essere vera è sempre condivisa. La pace è un percorso che parte da un cessato il fuoco ma che poi non si limita a quello. A differenza di quanto hanno sostenuto in questi anni i nostri detrattori, pensiamo che la pace debba essere condivisa dai popoli, non solo dai governi, e che per essere duratura debba garantire una vita dignitosa e felice alle persone. Questa è la nostra definizione di pace: non solo l’assenza di guerra. Finché non si capirà questo concetto, non solo non si capiranno le istanze dei movimenti pacifisti e nonviolenti, ma non si creeranno le condizioni affinché i popoli possano vivere davvero in pace. Ma forse per qualcuno è davvero questo l’obiettivo.
Lunedì 24 febbraio, in occasione del terzo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, terrete una maratona virtuale di interventi sul conflitto. Nella convocazione affermate che il “cessate il fuoco è la priorità, oggi più di ieri” e che occorre “ristabilire giustizia e sicurezza condivisa”. Quali sono le vostre “ricette” affinché ciò possa verificarsi?
In un periodo storico di delirio bellicista in cui parlare di pace e nonviolenza sembra folle noi vogliamo insistere su questi concetti. La priorità è giungere a una tregua e da quel momento in poi iniziare a discutere coinvolgendo tutti gli attori interessati, a partire dai popoli, e soprattutto conseguendo l’obiettivo di una sicurezza condivisa tra tutti. Noi non abbiamo ricette salvifiche, quindi, ma solo un metodo di lavoro serio e metodico, quello del dialogo. Come abbiamo visto in questi tre anni di guerra non ci sono altre strade percorribili e le armi non portano a nessuna soluzione.
Alla Conferenza di Monaco di pochi giorni fa si è parlato a lungo di riarmo. Secondo Ursula von der Leyen l’Europa deve prepararsi a spendere centinaia di miliardi per la difesa, gli stati dovrebbero investire almeno il 3% del loro Pil in armi (ma Trump chiede il 5%). Cosa significano questi numeri?
Quei numeri si traducono in centinaia di miliardi da “bruciare”, da investire soprattutto per acquistare nuovi sistemi d’arma per alimentare l’industria bellica, l’unica che non va mai in crisi. Quei miliardi naturalmente verrebbero sottratti al welfare, alle pensioni, al potenziamento dei sistemi sanitari, come d’altro canto ha ammesso molto esplicitamente anche il segretario della Nato Mark Rutte. Pensate: per l’Italia arrivare al 3% del Pil significherebbe trovare altri 35 miliardi di euro, mentre se si volesse arrivare al 5% chiesto da Trump dovremmo trovare 100 miliardi. Questi numeri però dicono anche altro.
Cosa?
Si sta certificando il fallimento della politica come strumento per garantire un’estensione dei diritti e un maggiore benessere delle persone, che sono gli elementi principali per garantire la pace. Ma non solo: come ha dimostrato l’ultimo vertice di Parigi gli stessi Paesi che si preparano a investire centinaia di miliardi per acquistare nuovi sistemi d’arma non si sono detti disponibili all’invio di truppe. Inoltre è totalmente assente una regia politica comune. Insomma, si comprano armi sottraendo risorse a cose ben più utili alle persone, ma non si ha ancora neppure un coordinamento politico e istituzionale che garantisca la sicurezza comune europea.
Pur sprovvista di una politica estera comune, l’UE afferma di aver compiuto passi avanti nel potenziamento della cooperazione per la difesa, il cosiddetto Esercito Europeo.
Mi spoglio dei panni del pacifista e rispondo con molta chiarezza: non è vero che l’UE ha compiuto passi avanti nel coordinamento della cooperazione per la difesa. Non esiste un esercito comune, non esiste una condivisione delle strutture militari. Sono stati semplicemente aumentati gli investimenti nell’industria bellica, tutto qua. Un esercito europeo potrebbe anche essere una buona idea, perché se esistesse un coordinamento politico comune a tutti gli Stati membri si potrebbero persino razionalizzare le spese militari riducendole drasticamente. Invece la cooperazione per la difesa non si sta verificando neppure nella tanto sbandierata convergenza dell’industria militare.
Perché?
Quella bellica è un’industria parassitaria che punta a ottenere il massimo dei profitti con commesse in giro per il mondo indipendentemente dalle scelte politiche europee. Lo vediamo ad esempio con l’aviazione militare: Leonardo collabora con l’inglese Bae Systems e la giapponese Mitsubishi per realizzare il Global Combat Air Programme (GCAP), un caccia stealth supersonico. Intanto Spagna, Francia e Germania stanno progettando il loro caccia. Dov’è il coordinamento europeo? Perché non fare scelte comuni?
In molti in questi anni hanno sostenuto che la Russia potrebbe “arrivare a Lisbona”. Come dovrebbe difendersi l’Europa da un’eventuale aggressione, se non dotandosi di una forza armata?
L’Europa ha già forze armate per difendersi da un’eventuale aggressione. Certo, non abbiamo il potenziale degli Stati Uniti, né siamo disponiamo delle armi nucleari della Russia o della Cina, ma in UE ci sono eserciti di tutto rispetto in grado di difendere il continente. Il punto però è un altro: davvero crediamo che l’Europa sia minacciata da un’aggressione? Davvero pensiamo che la Russia sia intenzionata ad invaderci per arrivare fino a Lisbona? E se lo crediamo, come abbiamo potuto pensare di sconfiggerla in Ucraina semplicemente inviando qualche sistema d’arma in più, descrivendolo ogni volta come salvifico per Kiev? La verità è che questa narrazione serve solo a creare il terrore di una guerra, e di conseguenza a giustificare le spese militari sempre in aumento. Noi pensiamo che invece l’Europa debba puntare sulla cooperazione e il dialogo: d’altro canto lo dimostra la nostra storia degli ultimi 80 anni. Paesi che per secoli si erano fatti la guerra hanno iniziato a collaborare e oggi nessuno di noi penserebbe mai che la Francia o la Germania possano invaderci. E inoltre, che senso ha continuare a spendere miliardi in armi e sottrarre risorse alla sanità, alla scuola, alla lotta al cambiamento climatico e a quella alla povertà?
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