Sarebbe un errore serio guardare a quello che può accadere – nel mondo e di conseguenza a casa nostra – solo correndo dietro alle mattane quotidiane di Trump, che vanno valutate con la dovuta preoccupazione, ma nel quadro degli equilibri globali che saranno progressivamente scanditi dall’avanzare delle nuove Intelligenze Artificiali. Da questo punto di vista alcuni fatti indiscutibili ci dicono dove si sta andando. Gli Stati Uniti hanno annunciato, nei primi giorni della nuova amministrazione, il progetto “Stargate”, un piano da 500 miliardi di dollari per sviluppare data center e infrastrutture per l’IA, coinvolgendo aziende come OpenAI, Oracle e SoftBank. La Cina ha da poco lanciato “DeepSeek”, un nuovo chatbot che promette di rivoluzionare il panorama globale dell’IA. Fuori dall’Europa, in Arabia Saudita, in India, in Australia, e anche nel vecchio Giappone, è tutto un fiorire di iniziative e investimenti. Per la verità anche la pachidermica Unione Europea si sta muovendo, con l’iniziativa “InvestAI”, che intende mobilitare 200 miliardi di euro, sostenendo progetti di ricerca e sviluppo nel settore: in Francia, dove è annunciato un piano del valore di 110 miliardi di euro; in Germania, che sta istituendo 150 nuovi laboratori universitari dedicati alla ricerca sull’IA, per rafforzare il legame tra mondo accademico e industria; mentre in Italia c’è un solo miliardo disponibile per l’IA, disperso in vari Fondi per l’innovazione, e nel frattempo abbiamo creato un Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale (AI4I), con un fondo di dotazione annuale di 20 milioni di euro: spiccioli buoni per pagare il personale dell’ufficio, già cospicuo (più di 300 addetti).
Il fattore demografico
Si dirà: ecco la solita lamentazione sull’Italia incapace di innovare, che non mette soldi su ricerca e tecnologie, e non scommette sul futuro. Ma noi non siamo altro che l’esempio più macroscopico di sofferenze strutturali che si manifestano nell’intero Occidente democratico. Come e più di altre nazioni, il nostro paese, retto da quei ceti istruiti e affluenti che hanno costruito nel dopoguerra la società del benessere, si è seduto sugli allori da qualche decennio, limitandosi a gestire pigramente i cambiamenti che si sono succeduti. Così siamo scivolati al secondo posto nel mondo per invecchiamento, e del fenomeno soffriamo tutti i problemi conseguenti, perché: a) le società con età media alta tendono a essere più conservative (chi è vicino alla pensione ha meno incentivi a rischiare); b) se la popolazione invecchia, aumenta il peso del welfare, e questo sottrae risorse all’innovazione; c) mentre le startup, la ricerca e le industrie tech hanno bisogno di nuove generazioni, con mentalità flessibile e capacità di rapido adattamento.
L’immigrazione
Come si può colmare questo gigantesco e – al momento – non reversibile gap? La verità è che solo una politica intelligente dell’immigrazione potrebbe compensare il calo demografico e portare linfa vitale nei settori tecnologici. Anche qui parlano i dati: i paesi più disposti a innovare e a maneggiare le nuove tecnologie sono quelli con tendenze demografiche positive, con una popolazione giovane o con politiche migratorie favorevoli, dagli Stati Uniti (grazie all’immigrazione, almeno fino a Trump) all’India (grazie alla demografia). Gli stessi fondatori delle grandi aziende tech sono spesso immigrati o figli di immigrati (da Google a OpenAI alla stesso demone Musk), anche se spesso le università occidentali non riescono a trattenere i talenti, per via dei visti di lavoro troppo restrittivi. A dimostrazione del fatto che le democrazie vedono nell’immigrazione più un problema che un’opportunità (non viene cacciato solo il povero migrante, si respingono anche i cervelli migliori). Così una nazione che insieme ha un trend demografico negativo e chiude all’immigrazione entra in un circolo vizioso drammatico. Perché meno innovazione significa meno crescita economica; una bassa crescita comporta meno investimenti in ricerca e sviluppo; l’assenza di investimenti ha come conseguenza la fuga di cervelli e il declino competitivo; minori opportunità per i giovani determinano un calo delle nascite e l’ulteriore declino demografico. Ora, sarebbe il minimo sindacale dire che, se vogliono rimanere competitive, le democrazie dovrebbero affrontare la questione demografica con un approccio innovativo, cioè con politiche di attrazione dei talenti, formazione e riconversione della forza lavoro, incentivi per il rientro dei cervelli. Il punto però è capire perché queste politiche non si fanno. E qui si arriva al nodo vero, che è il rapporto tra innovazione e democrazia.
Innovazione democrazia
Diciamolo in sintesi. I paesi democratici vivono di brevi cicli elettorali (4-5 anni generalmente), mentre le innovazioni tecnologiche maturano nel corso dei decenni. Questo porta i governi democratici a investire su politiche sociali a breve termine (welfare, pensioni, sgravi fiscali), perché garantiscono consensi immediati. E a dare scarsa attenzione agli investimenti strategici (intelligenza artificiale, energie rinnovabili, ricerca di base), perché i risultati si vedranno solo quando i politici attuali avranno lasciato il potere. In una dittatura o in un regime autoritario, invece, i leader non devono preoccuparsi delle elezioni e possono pianificare a lungo termine. Non dimenticherò mai un mio viaggio a Shanghai nei primi anni del nuovo secolo, durante il quale visitai un enorme plastico allestito nel centro che mostrava come sarebbe diventata la città nei 30 anni successivi. A mia domanda (“Ma chi garantisce che tutte queste cose saranno fatte?”) la risposta testuale fu: “Sai, noi mica abbiamo i consigli comunali che avete voi, con partiti e partitini, i verdi che piantano grane…”. Risposta raggelante, ma definitiva. I paesi non democratici possono investire massicciamente in innovazione con piani pluridecennali, mentre nelle democrazie occidentali anche progetti cruciali vengono rallentati da cambi di governo, opposizioni e burocratismi.
Per questo, se le democrazie non troveranno un modo per bilanciare il breve e il lungo termine, perderanno il primato tecnologico a favore di regimi meno vincolati dai cicli elettorali, diventeranno dipendenti dall’innovazione altrui, con conseguenze economiche e geopolitiche. Perdendo il controllo su settori strategici o lasciando spazio a Big Tech private che operano con logiche diverse da quelle pubbliche. In ogni caso avviandosi verso il declino.
Questa è la malattia di cui soffre la democrazia. L’innovazione tecnologica richiede velocità e adattabilità, mentre la vecchia burocrazia democratica è progettata per essere lenta, procedurale e garantista. Il che crea una tensione difficile da governare: troppa regolamentazione soffoca l’innovazione; troppa libertà permette abusi. Se lo Stato è troppo rigido, l’innovazione scappa altrove (le aziende tecnologiche si rifugiano in paesi con meno vincoli); se è troppo permissivo, può favorire monopoli privati incontrollabili. Le democrazie tradizionali, fondate su checks and balances, procedure complesse e processi legislativi lunghi, non si adattano all’accelerazione tecnologica. I regimi autoritari risultano più efficienti nell’adottare nuove tecnologie perché possono imporle senza discussione pubblica.
Proposte concrete
Come affrontare il problema e preservare la democrazia senza rallentare il progresso? Se siamo affezionati alla democrazia, dobbiamo modernizzare la sua burocrazia senza distruggerne i principi fondamentali, per evitare che la tecnologia venga utilizzata (solo) da chi ha meno vincoli democratici, con la conseguenza di possibili derive tecnocratiche o autoritarie. Sul fronte della burocrazia andrebbero quindi creati organismi di regolamentazione più flessibili e agili, capaci di aggiornarsi con il progresso tecnologico (ad esempio, estendendo le normative sandbox per testare nuove tecnologie senza bloccarle dentro regolamenti rigidi). Per dare maggiore agilità alla democrazia andrebbero sperimentate nuove forme di governance basate sulle tecnologie (voto elettronico sicuro, piattaforme di dibattito pubblico con l’Intelligenza Artificiale, ecc.). Bilanciando libertà e controllo, attraverso garanzie per l’esercizio dei diritti digitali (privacy, trasparenza degli algoritmi, controllo sui dati personali) che non soffochino il progresso. Sull’altro fronte, per garantire che il futuro avanzi senza insormontabili ostacoli, i fondi per l’innovazione andrebbero sottratti alla politica elettorale, con vincoli di spesa decennali, per non farli dipendere dalle varianti politiche. Le decisioni di investimento andrebbero affidate a organismi tecnici indipendenti (sul modello Usa del DARPA). Ci vorrebbero incentivi fiscali per il settore privato, con detassazioni mirate agli investimenti in ricerca. E, più in generale, nei settori chiave dello sviluppo (energia, biotecnologie, IA, etc) andrebbero adottati veri e propri modelli di pianificazione strategica. Basterebbero accorgimenti del genere per cambiare le cose? Probabilmente no, i nodi epocali resterebbero aperti. Una maggiore – a mio avviso auspicabile – apertura dei confini globali non risolverebbe di per sé il problema non aggirabile della gestione ordinata dei flussi. Uno snellimento delle procedure democratiche e più ampi (necessari) poteri ai governi non garantirebbero di per sé il funzionamento di organismi – sempre a mio avviso – largamente obsoleti come gli Stati-nazione. Ma potremmo almeno provare a far uscire il dibattito pubblico dalle fumisterie ideologiche e dagli scontri muscolari tra poteri. Se non lo faremo, le democrazie nelle quali siamo cresciuti deperiranno progressivamente, senza che – al loro posto – fioriscano per incanto forme di governance più avanzate.
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