il rischio d’impresa non vale

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Con la sentenza n. 5804/2025, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’ordinario rischio di impresa non possa rilevare quale causa di non punibilità per gli omessi versamenti IVA, nonostante la modifica normativa operata dal Dlgs n. 87/2024, che ha introdotto il riferimento espresso alla “crisi di liquidità”, in relazione alle fattispecie penali disciplinate dagli artt.10-bis e 10-ter, del Dlgs n. 74/2000

La Corte di appello confermava la sentenza del Tribunale, che aveva condannato l’imputato, quale rappresentante di una srl, in ordine al reato di cui all’art. 10-ter del Dlgs n. 74/2000 (in riferimento alla dichiarazione annuale 2015), alla pena di mesi quattro di reclusione.

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Da qui il ricorso in Cassazione, lamentando la violazione del citato art. 10-ter e vizio di motivazione in riferimento alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Evidenzia il ricorrente come la società da lui amministrata si trovasse nel mezzo di una irreversibile crisi di impresa (cagionata, per un verso, dall’ingresso sul mercato di colossi a basso prezzo, e, per altro verso, dall’incremento massiccio dello shopping on line, a scapito di quello fisico presso il negozio). Crisi che è sfociata pochi mesi dopo la data di consumazione del reato nel fallimento della stessa, nonostante il disperato tentativo di ricorrere al concordato preventivo, che non è andato a buon fine.

Il ricorrente produce altresì, copia della sentenza del Tribunale di Rimini che riconosce, anche se in riferimento ad altra società a lui riconducibile, che l’imputato si è completamente spogliato dei propri beni personali nel tentativo di salvare le sue società.

Omessi versamenti IVA: il rischio d’impresa non vale, le ragioni della Cassazione

Per la Corte il ricorso è inammissibile.

Ed infatti, tralasciando la vexata quaestio relativa alla natura della crisi di liquidità (o di impresa), ossia se essa incida sull’elemento psicologico del reato, andando ad incidere sulla colpevolezza, ovvero se costituisca causa di forza maggiore, toccando quindi la stessa antigiuridicità del fatto, ovvero ancora sia riconducibile alla incerta categoria dogmatica della “inesigibilità”, il Collegio osserva che, in ogni caso, affinché si possa parlare di impossibilità di tenere la condotta corretta con conseguente valore scusante:

“occorre che la crisi di liquidità sia determinata un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, secondo la diligenza dell’“agente modello” di settore, che esula dal dominio finalistico dell’agente e presuppone che egli non vi abbia in alcun modo dato causa (o concausa), sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento.”

Sul punto vengono richiamati una serie di precedenti (Cass. n. 30626/2020) dove è stato affermato che:

“al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Cass. n. 20266/2014; Cass. n. 8352/2014; Cass. n. 43599/2015).

Per escludere la volontarietà della condotta è, dunque, necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Cass. n. 8352/2014; Cass. n. 15416/2014; Cass. n. 5467/2013; Cass. n. 5905/2014).”

Posto che, altrimenti, la crisi di liquidità costituisce elemento che:

“rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario (Cass. n. 2613/2022; Cass. n. 12906/2018).”

Inoltre, si è sostenuto che è necessario che siano assolti precisi “oneri di allegazione” da parte dell’imputato:

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“che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto (Cass n. 46237/2022, che ribadisce i principi già espressi da Cass. n. 11035/2017).”

Occorre, in altre parole:

“una accorta ponderazione tra rischio di impresa (che non può essere posto a carico della collettività) e tutela dal soggetto agente da vicende di mercato assolutamente imponderabili e dallo stesso ingovernabili, tali da determinare una crisi di liquidità, non fronteggiabile con misure ordinarie e straordinarie.”

Scendendo in concreto, emerge che la crisi non è stata dovuta a fattori eccezionali o imprevedibili, ma a scelte imprenditoriali dell’imputato, unitamente ad una congiuntura di mercato sfavorevole, ossia a dinamiche perfettamente inquadrabili nel rischio d’impresa cui sono, loro malgrado, soggette tutte le aziende (sul punto, Cass. n. 20266/2014).

Il provvedimento impugnato evidenzia che la crisi non si è quindi verificata per un improvviso e imprevedibile fattore esterno, come sarebbe stato nel caso di ingenti inadempimenti da parte di un unico grosso cliente, ma di vendita al dettaglio che ha risentito di un calo generalizzato del fatturato, dovuto a problematiche di mercato e a scelte imprenditoriali (la crisi non è stata infatti dovuta a eventi straordinari ed eccezionali legati a clima, terremoti o simili).

Gli Ermellini evidenziano da ultimo che la Corte territoriale ha rilevato che non è stato dedotto:

“che la società non avesse riscosso l’Iva non versata, essendo di solare evidenza che, nel caso di IVA ricevuta «per cassa», rileva la condotta dell’agente tra il momento della riscossione e la scadenza del termine «lungo» annuale, già superato (v. pag. 5) al momento della richiesta di adire al concordato preventivo, poi revocata.”

E il Collegio evidenzia altresì che la situazione dianzi descritta non è destinata a diversa considerazione anche alla luce delle modifiche normative introdotte dal Dlgs n. 87/2024, il quale ha modificato l’art. 13 del Dlgs n. 74/2000 mediante l’inserimento di un comma 3-bis, a mente del quale:

“i reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi (la Corte nota e mette in risalto “come il requisito della inesigibilità dei crediti e del mancato pagamento dei crediti sono posti tra loro in disgiunzione, mentre la non esperibilità di azioni giudiziarie in congiunzione con il primo requisito”).”

Inoltre la Corte non ha riconosciuto la tenuità del fatto, atteso che come evidenziato dalla Corte territoriale, per un verso non ritiene sussistente l’indice-criterio della “speciale tenuità” del fatto, in ragione del non modesto scostamento (oltre 38.000 euro) dal valore soglia di 250.000 euro (v. sul punto Cass. n. 21474/2015, secondo cui l’omesso versamento all’Erario di una considerevole somma di denaro è incompatibile con un giudizio di particolare tenuità del fatto) e, per altro verso, non sussistente l’indice-criterio della non abitualità della condotta, avendo il ricorrente riportato due condanne definitive per i reati di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta, da ritenersi della stessa indole.

Alcune brevi note

Il Dlgs n. 87/2024, operando l’attesa revisione del sistema sanzionatorio tributario – penale, ai sensi dell’art. 20, della legge delega (n. 111/2023), le cui disposizioni penali si applicano alle violazioni commesse a partire dal 29 giugno 2024, ha cambiato il volto, fra l’altro, del reato di omesso versamento dell’IVA, di cui all’art. 10-ter, del Dlgs n. 74/2000.

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In pratica, il legislatore delegato, preso atto della giurisprudenza formatasi sul punto, viene incontro ai contribuenti che si adoperano per il pagamento del debito.

Infatti, nel corso di questi anni sono ormai diverse le sentenze che hanno letto la crisi di liquidità, il cui filo conduttore è legato alla prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.

Il Dlgs n. 87/2024, pur confermando la soglia di punibilità a 250.000 euro, ha prolungato i termini previsti per l’applicazione della sanzione per l’omesso versamento dell’IVA e introdotto alcune cause di esclusione, non previste nel testo fin qui vigente.

Pertanto, dal 29 giugno 2024 è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni chiunque non versa, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla medesima dichiarazione, per un ammontare superiore a 250.000 euro, per ciascun periodo d’imposta, se il debito tributario non è in corso di estinzione mediante rateazione, secondo quanto previsto dall’art. 3-bis, del Dlgs n. 462/1997.

In caso di decadenza dal beneficio della rateazione, ai sensi dell’art. 15-ter, del DPR n. 602/1973, il colpevole è punito se l’ammontare del debito residuo è superiore a 75.000 euro.

Inoltre, proprio per venire incontro alle esigenze delle imprese, il Dlgs n. 87/2024 ha di fatto rimodulato l’art. 13, del Dlgs n. 74/2000, norma che dispone a vario modo delle cause di non punibilità, in caso di pagamento del debito tributario, aggiungendo i commi 3-bis e 3-ter.

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E pertanto:

  • attraverso il comma 3-bis, dell’art.13, del Dlgs n. 74/2000, il reato di omesso versamento dell’IVA non è punibile se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui sopra, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi;
  • attraverso il comma 3-ter, dell’art. 13, del Dlgs n. 74/2000, ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’ art. 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, uno o più dei seguenti indici:
    • l’entità dello scostamento dell’imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità;
    • salvo quanto previsto al comma 1, l’avvenuto adempimento integrale dell’obbligo di pagamento secondo il piano di rateizzazione concordato con l’Amministrazione finanziaria;
    • l’entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione;
    • la situazione di crisi ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera a), del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al Dlgs n. 14/2019 (“Crisi”: lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi).

Se finora la tenuità del fatto era destinata ad operare in presenza di omessi versamenti vicino alla soglia di punibilità – già prevista normativamente – oggi la norma introdotta guarda alla condotta dell’imputato nel suo complesso rispetto all’offesa recata.

Per dare concretezza alla norma, il Dlgs n. 108/2024 – cd. Decreto correttivo – è intervenuto sull’art. 3-bis, del Dlgs n. 462/1997, ai fini dell’applicazione del nuovo delitto.

Fermo restando che le somme dovute possono essere versate in un numero massimo di 20 rate trimestrali di pari importo e che l’importo della prima rata deve essere versato entro il termine di 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, il comma 2-bis, dell’art. 3-bis, del Dlgs n. 462/1997, ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 10-ter del Dlgs n. 74/2000, prevede che gli esiti del controllo automatizzato effettuato ai sensi degli artt. 36-bis del DPR n. 600/1973 e 54-bis del DPR n. 633/1972, siano comunicati al contribuente entro il 30 settembre dell’anno successivo a quello di presentazione della relativa dichiarazione.

Nelle more del ricevimento della comunicazione il contribuente può provvedere spontaneamente al pagamento rateale delle somme dovute a titolo di imposta, nella misura di almeno un ventesimo per ciascun trimestre solare.

La prima rata è versata entro il termine indicato nel comma 1 dell’art.10-ter, del Dlgs n. 74/2000 (e cioè, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale) e le rate successive sono versate entro l’ultimo giorno di ciascun trimestre successivo. Dopo il ricevimento della comunicazione, il pagamento rateale prosegue secondo le disposizioni indicate nel comma 2-bis, dell’art. 3-bis, del Dlgs n. 462/1997 citato.

In caso di inadempimento nei pagamenti rateali si applicano le disposizioni di cui all’art. 15-ter del DPR n. 602/1973. Così che il mancato pagamento della prima rata entro il termine previsto, ovvero di una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, comporta la decadenza dal beneficio della rateazione e l’iscrizione a ruolo dei residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni in misura piena.

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È esclusa la decadenza in caso di lieve inadempimento dovuto a:

  • insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3 per cento e, in ogni caso, a diecimila euro;
  • tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni.

La disposizione di cui sopra si applica, per quel che ci interessa in questa sede, anche con riguardo al versamento in unica soluzione delle somme dovute ai sensi dell’art. 2, comma 2, e dell’articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 462/1997.

In caso di tardivo pagamento di una rata diversa dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, si procede all’iscrizione a ruolo dell’eventuale frazione non pagata, della sanzione di cui all’art. 13 del Dlgs n. 471/1997, commisurata all’importo non pagato o pagato in ritardo, e dei relativi interessi.

L’iscrizione a ruolo non è eseguita se il contribuente si avvale del ravvedimento di cui all’art. 13 del Dlgs n. 472/1997, entro il termine di pagamento della rata successiva ovvero, in caso di ultima rata o di versamento in unica soluzione, entro 90 giorni dalla scadenza.



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