“Fondi di coesione, agricoltura e auto green, troppe politiche Ue contro i cittadini”

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“La gestione dei fondi europei per le politiche di coesione rimanga alle Regioni e non sia demandata ai governi nazionali”. È l’appello che arriva dalla Lombardia ai vertici della Commissione europea. Una richiesta presentata in particolare al vicepresidente Raffaele Fitto, da una delegazione della Regione guidata dal presidente Attilio Fontana.



Col governatore lombardo c’era anche il sottosegretario regionale con delega alle relazioni internazionali ed europee Raffaele Cattaneo, che spiega così le preoccupazioni per un cambiamento che rappresenterebbe un pesante passo indietro per il territorio: “La Commissione sembra orientata a spostare dal livello regionale a quello nazionale la programmazione e la gestione del fondo sociale europeo e di quello per lo sviluppo regionale, che rappresentano circa un terzo del bilancio Ue, e dei fondi per la politica agricola comunitaria, che costituiscono un altro terzo del bilancio.

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Negli incontri a Bruxelles abbiamo fortemente evidenziato la necessità che queste politiche restino in capo alle regioni. Sono l’unico strumento che i territori hanno per toccare con mano cosa fa l’Unione Europea. Già la gente percepisce le istituzioni europee come distanti e lo saranno ancora di più se la gestione dei fondi verrà portata a livello nazionale”.

Qual è la ragione per cui la Commissione europea spinge in tale direzione? 

È quella di una teorica semplificazione, ma stanno confondendo semplificazione con centralizzazione. Sono due cose molto diverse.

Non le sembra una risposta all’incapacità cronica dimostrata da alcune Regioni nell’impiegare i fondi comunitari? 



Non si può penalizzare chi ha dimostrato di essere in grado di utilizzare con profitto i fondi europei perché qualcun altro è incapace. Nulla in contrario se si stabiliscono criteri per cui, in maniera sussidiaria, intervenga lo Stato centrale laddove una Regione non sia in grado di gestire quello che le è stato assegnato.

Che ci siano delle debolezze non può però diventare una ragione per impedire a chi, come la Lombardia, ha dimostrato di saper utilizzare bene queste risorse, di continuare a farlo. Altrimenti, paradossalmente, il risultato sarà che per questi territori le politiche saranno meno mirate sulle esigenze specifiche. Inevitabilmente se si faranno dei piani a livello nazionale, questi saranno costruiti sulla base di una media delle esigenze di quel Paese.

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Temete insomma un allontanamento dai territori.

Esattamente, questo è il tema che abbiamo sottolineato in tutti gli incontri, ma in particolare in quello con il vicepresidente esecutivo e commissario per le politiche di coesione Raffaele Fitto. E tengo a precisare che la voce che abbiamo portato come Lombardia non è solo nostra, ma è di tutte le Regioni europee, a cominciare da quelle più grandi. Noi partecipiamo a reti di Regioni che hanno posto lo stesso tema, dai 4 Motori d’Europa, di cui abbiamo la presidenza di turno, alla Cohesion Alliance, che riunisce oltre duecento Regioni che hanno manifestato la stessa preoccupazione.

E avete trovato una disponibilità a valutare le vostre ragioni? 

Sì e no. Abbiamo colto un orientamento difficile da scardinare. Con la riduzione dagli attuali 400 piani di gestione dei fondi su scala regionale a 27 piani nazionali, con la scusa di semplificare, non si tiene conto che gli Stati europei sono molto diversi tra loro. Accanto a grandi Paesi come Germania, Spagna o Italia che al loro interno hanno Regioni con tanti poteri, ci sono piccole repubbliche come i Paesi baltici o la Slovenia e la Croazia, che hanno da soli una dimensione regionale.

E quindi quali sarebbero le conseguenze?

C’è il rischio che succeda come col PNRR, dove tutto è stato gestito a livello centrale dai singoli Paesi e i territori non hanno toccato palla se non come soggetti beneficiari. Ma un conto è se le politiche e gli orientamenti su come si spendono questi soldi vengono decisi a livello territoriale; altra cosa è se al territorio rimane solo lo spazio per essere eventualmente beneficiario di politiche decise altrove. C’è dietro una visione molto diversa, è la differenza che passa tra la sussidiarietà e il centralismo.

E oggi in Europa purtroppo tira un’aria di neocentralismo, che trova il suo corrispettivo, a livello nazionale, in un indebolimento del ruolo delle Regioni e dei territori, alla faccia del principio di sussidiarietà. Abbiamo bisogno che tutti coloro che sostengono una visione di governo che parte dal basso e non è calata dall’alto colgano questo campanello d’allarme e si facciano sentire. E questa non è l’unica fonte di preoccupazione.

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L’altra quale sarebbe?

Riguarda la politica agricola comunitaria. L’Europa procede con programmazioni che durano 7 anni. Quella attuale si concluderà nel 2027, ma quest’anno la Commissione proporrà l’impianto, anche finanziario, delle politiche del prossimo settennato. E c’è la volontà di ridurre i fondi per la politica agricola, oltre che per la coesione, a favore delle spese per la difesa.

Poiché gli Stati non vogliono aumentare il contributo che danno al bilancio europeo, se bisogna spendere di più per la difesa, viste le pressioni che arrivano dagli Stati Uniti e le dichiarazioni di disimpegno di Trump, bisognerà spendere di meno per altre voci. E quali sarebbero? Tutte le politiche che hanno a che fare col territorio: fondi di coesione e agricoltura.

Come se ne può uscire, visto che l’aumento degli investimenti sulla difesa non sembra evitabile?

Come molti stanno proponendo, e anche noi fra questi, superando la resistenza, in particolare tedesca, a togliere le spese per la difesa dai vincoli del Patto di stabilità e a consentire che possano essere finanziate con un debito europeo. Se dobbiamo investire di più sulla difesa facciamolo, perché in questo momento i temi della sicurezza sono tornati prioritari, anche se non bisogna dimenticare che – la storia insegna – tutte le volte che si corre a comprare le armi poi a qualcuno viene in mente di usarle.

Concentrare invece a livello europeo tutti gli investimenti in difesa razionalizzando la spesa che adesso fa capo ai singoli Stati nazionali in ordine sparso, è un obiettivo impossibile?

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Non è impossibile, ma occorre scegliere. Se consideriamo l’ammontare delle spese per la difesa di tutti i Paesi europei messi insieme, più o meno si arriva al livello degli Stati Uniti. La capacità europea di essere influente nello scenario globale sul fronte sicurezza è però incomparabile con quella americana. Lo si è visto nel caso dell’Ucraina. Abbiamo 27 Paesi ciascuno con i propri comandi militari che spendono in modo diviso e quindi contano molto poco.

Dopo le elezioni dell’anno scorso, da più parti, Italia in primis, si auspicava una revisione profonda delle politiche green. Che aria avete percepito a Bruxelles? 

Tira un’aria di cambiamento, ma non si è ancora riusciti a mettersi al riparo dalle derive ideologiche di una visione green poco realistica che abbiamo visto nella fase finale della scorsa legislatura. Il nuovo Parlamento sembra meno incline a inseguire politiche che abbiano come riferimento solo la sostenibilità ambientale e non anche quella economica e sociale. Nella Commissione invece rimane forte l’impronta di Timmermans, molto ideologica e propensa anche a tagliare posti di lavoro in nome di un’idea astratta di sostenibilità ambientale.

In cosa emergono queste contraddizioni?

In questi giorni è stato presentato il Competitivity Compact che dovrebbe orientare l’azione della Commissione, dopo i rapporti di Mario Draghi e di Enrico Letta, e guardando dentro quel documento si capisce che questa ambivalenza c’è ancora tutta. Bisognerà vedere se l’Europa sarà in grado di fare le scelte necessarie per sostenere la forza della propria industria e della propria economia, o se invece proseguirà su una strada che sta portando a conseguenze molto critiche, dai licenziamenti alla Volkswagen alla Piaggio che se ne va dall’Europa.

Come si spiega questa ambivalenza?

La Commissione è sostenuta dai popolari, che vogliono un cambiamento nella direzione di una maggiore attenzione all’economia e all’industria, ma anche dai socialisti che invece sono allineati sulle politiche del Green Deal. Quindi è costretta a barcamenarsi fra tendenze opposte. Rischia di finire un po’ come Mezio Fufezio, squartato da cavalli che si muovono in direzioni contrarie.

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Il settore dell’automotive, particolarmente rilevante in Lombardia, è quello che sta pagando il prezzo più alto di queste politiche europee…

C’è stato un errore di fondo. Anziché indicare un obiettivo ambientale, cioè, per esempio, la riduzione delle emissioni nel settore automobilistico, è stata imposta una tecnologia stabilendo che bisognava spostarsi tutti sul motore elettrico. E questa tecnologia non si sta dimostrando capace di incontrare il favore dei cittadini. Si comprano così meno macchine e il parco auto è fatto di veicoli più vecchi e quindi anche più inquinanti.

Bisogna invece cambiare paradigma, scegliere la neutralità tecnologica, lasciando alle imprese, alla ricerca, all’innovazione il compito di trovare le strade più efficaci per raggiungere obiettivi politici. Ma l’obiettivo politico saranno le emissioni zero, non il suo raggiungimento attraverso la sola tecnologia dell’auto elettrica, come purtroppo sta succedendo. Col risultato che la ricerca sulle altre tecnologie si è fermata. Ricordo solo che gli investimenti sui motori endotermici benzina e diesel avevano portato negli ultimi lustri a un abbattimento delle emissioni di oltre 600 volte.

Sulle multe ai costruttori di auto che non hanno raggiunto gli obiettivi sulle riduzioni di emissioni, c’è un’apertura per una revisione?

Sembra di sì, perché tutti hanno capito che è controproducente per la stessa Europa. I costruttori europei dovrebbero pagare delle multe perché non riescono a rispettare i limiti delle emissioni a causa del fatto che vendono meno auto elettriche di quelle che dovrebbero vendere. E già oggi per evitare queste sanzioni sostanzialmente comprano i crediti di carbonio da imprese come Tesla che possono venderli perché producono solo auto elettriche.

Il paradosso, quindi, è che si danno soldi a Tesla che già produce mezzi elettrici, e non a chi avrebbe bisogno di investire per cambiare le nostre produzioni, e in più i costruttori europei dovrebbero pagare le multe alla Commissione. Sarebbe un ulteriore costo che indebolirebbe le imprese, rendendo ancora più difficile fare quella transizione che l’Europa vuole.

C’è qualche speranza che vengano riviste le norme sull’addio al motore endotermico entro il 2035?

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Nel corso del 2025 probabilmente si anticiperà il primo check (che era previsto nel 2027) della direttiva che prevede il blocco della produzione dei motori endotermici al 2035. Al momento però non si coglie una volontà reale di dare corso a quello che alcuni Paesi, in primis l’Italia, hanno già formalmente posto sul tavolo e cioè la revisione dell’obbligo del 2035.

Questo è il tema cruciale. Le imprese già oggi non stanno più investendo sulle tecnologie che possono migliorare le emissioni dei veicoli endotermici per spostarsi sull’elettrico, ma su questo abbiamo un deficit di competitività irrecuperabile. Gli Stati Uniti con Tesla, ma ancor più la Cina, stanno invadendo il nostro mercato con auto elettriche che costano la metà di quelle europee, se non un terzo. È una concorrenza che noi non possiamo reggere.

E vorrei aggiungere che, quando si parla di automotive, è vero che oggi i grandi marchi sono prevalentemente tedeschi (Volkswagen, Audi, Mercedes, BMW), ma i subfornitori di questi grandi produttori sono in larga parte italiani, in particolare del Nord Italia e della Lombardia. Se il comparto va in crisi, quindi, è a rischio anche la nostra economia.

(Piergiorgio Chiarini)

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