Un campo tendato a Gaza City per gli sfollati, Ne stanno sorgendo a decine, in tutta l’enclave, ma sono privi di qualsiasi infrastruttura essenziale – Reuters
Ok, la “Gaza Riviera” di Trump non convince quasi nessuno, ma ha l’indiscutibile merito di aver portato all’attenzione del mondo la necessità di fare qualcosa per quella striscia di terra. E, tanto per cominciare, venerdì a Riad sarà in discussione una proposta egiziana di ricostruzione con i palestinesi dentro. Nell’enclave stanno spuntando blocchi di tende bianche, arancioni o gialle o blu in mezzo al grigio delle macerie, tra i palazzi piegati. Ogni giorno un “lotto” nuovo. Niente sistema fognario, nessun sistema idrico, ordigni inesplosi, sostanze altamente tossiche, condizioni igieniche improponibili e i 40 gradi dell’estate in arrivo.
Mark Jarzombek, professore al Dipartimento di Architettura del MIT (Massachusetts Institute of Technology) è tra gli esperti più accreditati di distruzione urbana e ricostruzione. Ha studiato il caso di Dresda, città sostanzialmente rasa al suolo dagli alleati tra il 13 e il 15 febbraio 1945 (tra le 25mila e le 40mila vittime civili in poche ore, praticamente tutte quelle che la propaganda di Hamas sostiene ci siano state a Gaza in 15 mesi di guerra). Il suo lavoro più rilevante è Urban Heterology: Dresden and the Dialectics of Post-Traumatic History, secondo volume della serie Studies in Theoretical and Applied Aesthetics (Lund University, 2001), in cui ha analizzato gli effetti persistenti del trauma anche dopo la ricostruzione.
Le macerie di Dresda, le macerie di Gaza
Il contesto di Gaza è radicalmente diverso da quello di Dresda ma è proprio dal confronto con ciò che fu fatto in Europa dopo la Seconda Guerra mondiale che emergono le criticità della (ri)costruzione della Striscia. A cominciare dalla rimozione delle macerie.
«A Dresda la maggior parte degli edifici pre-conflitto erano costruiti con legno e mattoni – spiega ad Avvenire il professore del MIT –. Poiché gli uomini erano impegnati nei progetti di riedificazione o nelle fabbriche appena riaperte, e anche in considerazione del fatto che molti giovani erano stati uccisi in guerra, furono soprattutto le donne di Dresda a unirsi per rimuovere le macerie . E lo fecero con le carriole. Difficile dire con esattezza quanto tempo ci sia voluto, ma nel giro di un anno circa, le strade erano state sgomberate, e nei 5 o 6 anni successivi sono state create aree aperte nei punti in cui prima c’erano le case collassate. All’inizio degli anni ’50 sono stati fatti progetti per gli edifici futuri, con la costruzione di nuove abitazioni negli anni ’60 e ’70. In altre parole, ci sono voluti circa 20 anni prima che si potesse dire che c’era una popolazione urbana. In ogni caso, la popolazione era notevolmente inferiore rispetto a prima della guerra. La gente di Dresda, in tutto quel lungo periodo, si era trasferita nelle città circostanti. I palestinesi della Striscia vogliono restare, immagino con rafforzata convinzione, dopo le parole di Trump».
I gazawi per ora si sono spostati dalla zona umanitaria del sud (Al-Mawasi, vicino a Rafah, creata durante la guerra) alle città o ai campi profughi in cui risiedevano prima. In tutta l’enclave gli edifici sono stati costruiti con cemento e ferro/acciaio: ci vorrà più di qualche carriola per la rimozione di 50 milioni di tonnellate (stimate) di macerie.
«Penso che si dovrà prima sviluppare un sistema stradale “dedicato”, a “misura di camion”, attraverso l’area distrutta, per evitare che i mezzi pesanti debbano fare avanti e indietro nelle vie originarie, il che richiederà molto tempo – spiega Jarzombek -. Quindi sarà necessario studiare un sistema per lo smaltimento, immaginando che le macerie vadano verso l’Egitto e che poi tutto venga scaricato nel deserto da qualche parte, ma è solo un supposizione preliminare. Le persone dovranno essere dislocate internamente, durante questa fase. Il che avrà un impatto diretto sulla geografia delle proprietà. In Europa dopo la guerra, le proprietà furono consolidate dallo Stato: un lavoro che implicò una complicatissima burocrazia per i risarcimenti. Come questo possa avvenire a Gaza è impossibile anche solo pensarlo, poiché richiede la presenza di un’autorità statuale che sappia garantire e far rispettare il processo».
I palestinesi sfollati e i campi tendati
Distrutta o meno, Gaza ha una superficie di 360 chilometri quadrati e ci vivono circa 1.800.000 palestinesi: la densità “abitativa”, si fa per dire, è tra le più alte del mondo. Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, il 19 gennaio, sono stati allestite molte tendopoli, ma senza alcuna infrastruttura. Le condizioni igienico-sanitarie sono estremamente rischiose. Dopo il 1948 sono sorti molti campi profughi nella Striscia (Deir al-Balah, Jabalya, Khan Yunis, Nuseirat, Shati, Rafah) che si sono stabilizzati, diventando “permanenti”: dalle tende si è passati al cemento, è stata costruita una rete fognaria, idrica, elettrica. Ma basta guardare Gaza dall’alto, nelle tante immagini fornite dai droni, per rendersi conto che non c’è spazio fisico tra gli edifici distrutti per stabilizzare alcunché, in sicurezza. E anche supponendo possa entrare in campo la più efficace società di demolizione/costruzione del mondo, lavorare in questo contesto, con queste premesse, sembra un rebus.
«Un Cubo di Rubik, direi – continua Jarzombek – che cambia costantemente. Qualcosa di mai visto prima nella storia. Quando le macchine saranno in un punto dell’enclave, gli alloggi temporanei dovranno essere allestiti da qualche altra parte. E poi le persone dovranno devono essere spostate per costruire in quel sito. Alla fine ci sarà un cantiere accanto a un’area che è stata sgomberata accanto a un’area che è un piazzale di sosta per la demolizione accanto agli alloggi temporanei per i residenti di Gaza accanto agli alloggi temporanei per i lavoratori edili accanto a una scuola accanto a un ospedale e così via. Questo patchwork sarà in perenne movimento a seconda delle circostanze della demolizione e della costruzione. Un’impresa monumentale. E un trauma costante per la popolazione, che si sommerà a quello della guerra: le ferite della morte e dei decenni di sfollamento interno (con la sua inevitabile distribuzione non uniforme di ricchezza e potere) dureranno per molte generazioni».
L’infrastruttura dei terroristi di Hamas: i tunnel sotto le macerie
Non bastasse, va tenuto conto che le macerie di Gaza sono il prodotto della distruzione dell’enorme infrastruttura bellica di Hamas: 800 chilometri di tunnel sotterranei, la maggior parte con sbocchi di entrata/uscita nelle abitazioni civili, nelle scuole, negli ospedali: una città sotto la città. Da neutralizzare.
«Gli israeliani vorranno assicurarsi che il nuovo progetto di edificazione preveda l’annientamento di quella rete capillare di tunnel, in modo che non possa più essere utilizzata. Ciò implicherà un processo di verifica incredibilmente complicato. Mi viene da dire: buona fortuna. I tunnel in sé, da un punto di vista ingegneristico, non rappresentano un problema diretto. Ma sono “il” problema se si vuole costruire con uno sguardo a un futuro di sicurezza”»
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Il professor Mark Jarzombek, professore al Dipartimento di Architettura del MIT (Massachusetts Institute of Technology) ed esperto di distruzione urbana e ricostruzione – Archivio
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La copertina del volume “Urban Heterology: Dresden and the Dialectics of Post-Traumatic History” in cui Mark Jarzombek del MIT ha analizzato gli effetti persistenti del trauma anche dopo la ricostruzione – Archivio
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