Donald Trump ci spaventa, ma la riscossa europea può partire dal mezzogiorno

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Qualche giorno fa, commentando la propria politica, dinanzi alla platea americana, che poi diventa quella mondiale, Trump dichiarava: «Tre settimane fantastiche, probabilmente le migliori di sempre». E si accingeva a inaugurare l’era dei «dazi reciproci» ovvero tariffe doganali mirate per ciascun Paese che le applica agli Stati Uniti, penalizzati dall’accumulo di deficit negli scambi con l’estero a fronte di un basso tasso di risparmio interno nel confronto con i propri partner commerciali. Nessuna differenza tra Paesi alleati e competitors, un’imposizione a tutto campo. Una visione, ben oltre il senso dello slogan Americafirst, perché diventa Americaagainst (contro) – in questo momento contro il resto del mondo – considerata quella deriva in atto da anni, secondo i più attenti analisti internazionali, contro i principi che hanno portato gli Stati Uniti ad essere la più grande democrazia dei tempi moderni. Quasi un bug, un insetto, un verme interno al corpo del Paese, intento, giorno dopo giorno, a divorarlo. Nell’apparente irresponsabilità e nell’evidente imprevedibilità delle scelte che si sommano con ritmo impressionante, Trump sarebbe allora solo l’espressione sfrontata di un disegno affatto nuovo e non improvvisato, favorito da un’era di libidine tecnologica che travolge il bene comune.

Che si condivida o meno questa lettura, azzardata anche dal disorientamento, è tempo di scelte e di valori. Le civiltà millenarie, dalle sponde del Mediterraneo fino a tutte le altre che le hanno ospitate, hanno le risorse economiche, politiche e culturali per costruire percorsi alternativi ad uno scontro inaccettabile, alimentato da un liberismo capitalista nella storia da appena duecentocinquant’anni, che sembra aver tradito le sue radici, producendo infinite diseguaglianze, in una realtà che abbiamo continuato a non voler vedere. I primi segnali di risveglio, tuttavia, pare che ci siano, a cominciare proprio dall’Europa. E sarebbe una magnifica espressione della legge del contrappasso: Trump mira a disgregare il consesso europeo e lo ignora sui tavoli che contano, proprio lui «a sua insaputa» causa l’effetto contrario di unirlo. Il sonno della realtà e l’afasia che hanno portato l’UE alla periferia del caos che viviamo con in prima linea i grandi Paesi che l’hanno fondata, compreso il nostro, sembrano finalmente consapevoli della necessità di completare quel progetto nato settant’anni fa e lasciato al declino, indispensabile all’equilibrio mondiale.

Si torna a parlare di concertazione, di principi e del loro costo, nonché di un progetto comune di difesa. Come antidoto alla globalizzazione si era fatta una politica di regionalizzazione, ovvero di interessi di area, ma ci si rende conto che anche questi interessi oggi non potrebbero sottrarsi al salto di prospettiva che coniuga il particolare ad una visione condivisa. Ma in un tempo di innovazione, il rinnovamento riguarda i sogni dei popoli e le politiche che li esprimono. Un cambio di passo, dunque, anche per le nostre vecchie società e per la nostra vecchia politica. È ciò che Trump chiamerebbe un radicalshift, un cambiamento radicale.

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Benché risvegliati dal sonno della realtà, verosimilmente però, quanto appena scritto sembra un’utopia. Ma all’opposto dell’utopia non c’è la distopia? La distopia, dove il suffisso «dis» indica un’alterazione, che tratteggia le tendenze sulla base del presente, immaginando iper-realtà ed iper-spazi che disegnano scenari terrificanti, in balia della paura? Perché non esercitarsi allora sulla prospettiva di un cambiamento possibile, magari non radicale, come impone Trump, ma finalmente avviato, magari a cominciare dal Sud? In vista dell’appuntamento elettorale delle Comunali e delle Regionali di primavera, si stanno riproponendo le solite logiche di partito, le liste civiche camuffe, le candidature degli arci-noti oramai incanutiti, eventuali alleanze temporanee che non fanno programma e le promesse che non saranno mantenute.

Gli elettori del Sud, che alle politiche hanno raggiunto il primato mortificante della più bassa partecipazione al voto, appena superiore al 40%, non hanno ragionevoli motivi per ritenere che la loro volontà non segnerà nuove politiche sociali, sanitarie e del lavoro, ancor meno economiche o ambientali, già che mancano proposte credibili per il loro futuro? In tanti, troppi, sceglieranno il mare o in campagna. L’astensionismo, sarà il partito di maggioranza, come accade regolarmente negli ultimi anni. Perché la politica nazionale, regionale e comunale non trova il coraggio della sorpresa o almeno di scelte chiare e innovative? Perché l’entusiasmo della partecipazione non diventa un obiettivo? I cittadini del Sud sono cittadini europei come gli altri, titolari del proprio tempo come gli altri: dovranno continuare a subire i ritardi legati ad una geografia che nel passato li poneva invece al centro della grande civiltà mediterranea?

Temi sui quali esercitare l’impegno politico ce ne sarebbero ad oltranza, dal diritto alla salute, all’economia dello sviluppo sostenibile, all’emigrazione come risorsa, alle infrastrutture che non decollano, al dialogo inter-mediterraneo, mentre si continua a parlare solo di un ponte che servirà agli interessi economici di chi vuole costruirlo e di chi glielo lascerà fare. Un segnale forte di attenzione ai bisogni locali sarebbe allora anche la riscrittura affidata ad un referendum popolare dei confini territoriali, così cara alla politica di Trump, che cambia invece arbitrariamente il nome dei luoghi. Accade per il golfo del Messico, Gaza diventa un lotto edificabile, per lui l’Ucraina è solo un bacino di terre rare da depredare e allunga le mani sulla Groenlandia sul Canale di Panama e chissà su cosa altro ancora. Il ricorso ad un referendum che offre la scelta ai cittadini potrebbe essere un segnale importante, in termini di legalità e di cultura. Prendiamo la piccola Basilicata, sempre in fondo agli indicatori economici del profondo Sud dimenticato. Perché non sposare il progetto della grande Lucania (già il nome dovrebbe essere riproposto) coltivato da tempo dalle popolazioni del Vallo di Diano e del Cilento? Si realizzerebbe un’identità politica, culturale ed economica condivisa che darebbe nuova spinta all’intera regione, accogliendo i desideri di chi la abita. E aprire il dibattito sulla collocazione di Matera capitale, sempre seconda in Basilicata, piuttosto che su Taranto e l’ex Ilva, non sarebbe anch’esso un tema per riportare al centro il senso della cittadinanza? Trump ci spaventa, ma l’immobilismo, all’interno dei nostri confini, diventa perfino peggiore.



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