Moltissimi lettori saranno rimasti sconcertati dalla proposta alla Danimarca, formulata dal Presidente degli Stati Uniti di acquistare la Groenlandia, da circa 800 anni parte integrante di quel Paese. E dal suo progetto di acquisto, da parte degli Stati Uniti, della Striscia di Gaza, con l’obiettivo di trasformarla in un magnifico centro di vacanze dopo averne collocato «altrove» gli abitanti. In realtà, l’«espansione mediante acquisizione» è un elemento quasi sempre presente nella storia degli Stati Uniti.
Nel lontano 1803 gli Stati Uniti acquistarono la Louisiana dalla Francia per quindici milioni di dollari di allora: il territorio era troppo lontano e Napoleone troppo fortemente impegnato sul fronte militare europeo. La lontananza convinse la Spagna, una quindicina di anni più tardi, a vendere a Washington la Florida (allora largamente selvaggia) per 5 milioni di dollari. Nel 1898, il prezzo pagato agli spagnoli per la Filippine fu di 20 milioni di dollari; gli americani vi costruirono importanti ottime basi militari espandendo la loro presenza nel Pacifico: Manila divenne indipendente soltanto nel 1946.
Nello stesso 1898, la bandiera a stelle e strisce sventolò anche su Cuba, dopo una guerra con gli spagnoli, e gli Stati Uniti acquistarono la base di Guantanamo, dove ancora oggi possono venir detenuti combattenti stranieri di guerre lontane e scomode. Nel 1867 la Russia cedette l’Alaska a Washington per 7 milioni di dollari. E la stessa Danimarca, oggi indignata per l’offerta d’acquisto della Groenlandia, vendette agli Stati Uniti nel 1917 le sue Indie Occidentali. Durante la seconda guerra mondiale, il Regno Unito ricevette grandi quantità di materiale bellico dagli Stati Uniti, che ha finito di pagare solo pochi anni fa; poco prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, concesse a Washington per 99 anni la costruzione e l’uso di basi militari sull’Isola di Terranova e nei Caraibi. Oggi il «pacchetto degli obiettivi» di Trump comprende anche l’offerta al Canada di diventare uno «Stato dell’Unione».
In definitiva, si può sostenere che l’obiettivo di Washington sia quello di continuare e di consolidare una condizione di primato che molti indicatori mostrano essere in fase di tramonto. Questa condizione è «mascherata» come «economia di mercato» ma il mercato trumpiano è semplicemente il predominio del più forte, con una distribuzione dei redditi sempre più diseguale.
A complicare la situazione contribuisce una generale presa di coscienza delle potenzialità dell’Ucraina e in particolare delle sue riserve minerarie come ha scritto ieri su questo giornale Monica Perosino. Probabilmente, proprio durante la guerra in corso si è preso coscienza dell’importanza strategica di queste riserve (al primo posto occorre porre soprattutto le cosiddette «terre rare», indispensabili per molte applicazioni avanzate dell’elettronica e dell’informatica).
In definitiva, appare ben possibile un tentativo del Presidente americano di concludere un accordo con il suo collega russo «scavalcando» l’Europa per confermare e consolidare quel primato tecnologico-economico che Trump e i suoi collaboratori sentono minacciati dalla crescita e dalle «terre rare» cinesi. Di qui nasce la minaccia di dazi senza che esista una vera e propria stima degli effetti che questi possono determinare non solo sui partner commerciali esteri ma anche sui produttori interni americani.
Di certo, i dazi su acciaio e alluminio, annunciati ieri dal Presidente americano, non hanno molte possibilità di incidere davvero sui flussi commerciali tra Unione europea e Stati Uniti e sembrano un elemento «di bandiera» o poco più. La vera «battaglia commerciale» tra i due motori dell’economia occidentale non riguarderà le materie prime industriali ma i più sofisticati prodotti elettronici. L’Europa potrebbe cercare di imporre ai grandi mondiali dell’elettronica e dell’informatica di pagare più imposte nel Vecchio Continente e impedire che i «serbatoi elettronici» di dati che riguardano l’Europa stessa vengano stivati all’estero (o comunque manovrati dall’estero).
Soprattutto l’Europa dovrà modificare in maniera più realistica le sue politiche ambientali. Finora ha, infatti, agito pressoché esclusivamente sui motori elettrici delle auto, facendo passare in secondo piano il costo, veramente elevato, della creazione di reti di ricarica delle batterie dimenticando che così soprattutto si sposta l’inquinamento dai centri urbani verso i luoghi di produzione dell’elettricità senza realmente ridurlo. Si è data scarsa importanza, soprattutto nei Paesi con grandi allevamenti meccanizzati, al ruolo dell’inquinamento agricolo. In questi e altri settori è necessario rivedere i programmi europei per il futuro Speriamo che gli elettori tedeschi (i primi chiamati a rinnovare, tra poche settimane, il loro parlamento) si rendano conto che qui (e non sulla «rottamazione delle cartelle e simili) si gioca una parte importante del nostro futuro.
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