Secondo tutti i sondaggi, sarà una corsa a due: a disputarsi la presidenza (e il controllo del parlamento) alle elezioni di oggi in Ecuador saranno il presidente uscente di destra Daniel Noboa, in cerca della rielezione per un mandato completo, e la rappresentante della Rivoluzione cittadina Luisa González, appoggiata dall’ex capo di Stato Rafael Correa e già sconfitta da Noboa alle elezioni anticipate del 2023.
Ancora una volta, correismo versus anticorreismo. E, con ogni probabilità, sarà il ballottaggio del 13 aprile a decidere chi dei due avrà la meglio, per quanto il grido «un turno solo» si sia alzato durante la chiusura della campagna elettorale sia di Noboa, il quale ha evocato un «nuovo ciclo» per il paese nel segno dell’ordine, della sicurezza, degli investimenti, delle opportunità per i giovani e via dicendo, sia di González, che ha chiesto a gran voce una svolta dopo le nefaste presidenze di Lenin Moreno, di Guillermo Lasso e infine del suo avversario. «Volete altri quattro anni così? Non ce la facciamo più, il paese è esausto», ha dichiarato la candidata con cui il correismo spera di tornare al potere dopo 8 anni, puntando il dito contro governanti che, ha detto, «non sanno cosa sentiamo, non sanno come viviamo, non intendono altro che i propri capricci e le proprie vanità».
TUTTI LONTANISSIMI dai due favoriti gli altri 14 candidati, compreso il presidente della potente Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) Leonidas Iza, candidato per Pachakutik, che ne rappresenta il braccio politico, in alternativa tanto alla destra quanto al correismo. Per quanto il voto rurale possa venir sottostimato dai sondaggi, il misero 2,6% di cui Iza è accreditato non può non destare sorpresa, considerando l’enorme potere di mobilitazione della Conaie (e i suoi tanti conti in sospeso con Rafael Correa, soprattutto sul terreno dell’estrattivismo).
Sotto la presidenza di Iza, il quale si definisce anticapitalista, anti-imperialista, anti-patriarcale e di sinistra, la Conaie ha comunque accorciato la distanza con il correismo, fino a dare il via libera a una sorta di patto di non aggressione tra le forze progressiste che potrebbe alla fine risultare determinante per la vittoria di Luisa González.
Di una svolta, del resto, il paese avrebbe urgente bisogno, di fronte alla profonda crisi economica, energetica, sociale e istituzionale in atto, per di più accompagnata dall’allarmante aumento della repressione statale, di cui il caso più eclatante, ma non certo l’unico, è quello dei quattro adolescenti afroecuadoriani del quartiere Las Malvinas di Guayaquil, una comunità maggioritariamente nera e povera, fermati da un gruppo di militari e poi trovati carbonizzati.
UN CASO CHE AVEVA SCOSSO profondamente il paese ma non il suo presidente, il quale, durante un dibattito tra candidati durante la campagna elettorale, non aveva saputo neppure ripetere i nomi dei quattro adolescenti (che noi vogliamo invece ricordare: Steven Medina, Saúl Arboleda e i fratelli Ismael e Josué Arroyo).
Se la dichiarazione da parte del governo Noboa, un anno fa, di un «conflitto armato interno» – con l’autorizzazione ai militari a intervenire contro la criminalità organizzata come se fossero in guerra – non ha reso l’Ecuador un paese più sicuro, sono invece cresciuti i casi di violazione dei diritti umani: come denuncia Iza, «sono stati processati più di 20mila giovani, di cui però solo 350-500 avevano un qualche vincolo reale con attività illegali». E a ciò si aggiunge, afferma, un «clima di razzismo strutturale»: «se qualcuno vede un afrodiscendente, lo considera un criminale; si vede un indigeno lo accusa di terrorismo e se vede un povero lo stigmatizza».
Una svolta, tuttavia, è tutt’altro che scontata, tanto più che Noboa, nato a Miami, può contare anche sul sostegno di Trump – al cui insediamento è stato tra i pochi presidenti latinoamericani invitati -, in un paese in cui l’ambasciata Usa esercita una forte influenza sul governo.
E NOBOA IL SUO DOVERE nei confronti dei suoi amici nordamericani l’ha fatto, consentendo l’installazione di una base militare statunitense nientedimeno che alle Galapagos, incurante delle minacce al delicato ecosistema marino esplorato e studiato da Darwin.
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