A Seul tre presidenti in due settimane, è caduto anche Han

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Tre presidenti nel giro di due settimane. Quello eletto, il conservatore Yoon Suk-yeol, sospeso e accusato di insurrezione dopo aver imposto la prima legge marziale dell’era democratica. Quello ad interim, il premier Han Duck-soo, è finito ieri sotto impeachment per effetto del voto dell’assemblea nazionale. E ora tocca al vicepremier e ministro delle finanze, Choi Sang-mok, che non si sa quanto possa durare. Si tratta di un’escalation senza precedenti, con la Corea del sud che si ritrova in un caos forse ancora più ampio di quanto immaginava. L’unità, che sembrava ritrovata tra i partiti rivali dopo l’abnorme golpe militare tentato da Yoon la notte del 3 dicembre, si è già frantumata. Da una parte, il Partito del potere popolare che cerca di prendere tempo, ostacolando le mosse destinate a velocizzare la decisione della Corte costituzionale sulla sorte del presidente messo in stato d’accusa al secondo tentativo dello scorso 14 dicembre. Dall’altra, il Partito democratico che fa valere la maggioranza parlamentare e utilizza l’arma dell’impeachment come una clava per abbattere un governo già traballante.
Per rimuovere un presidente ad interim, così come qualsiasi componente dell’esecutivo, non serve il quorum di due terzi dell’Assemblea nazionale, è sufficiente una maggioranza parlamentare semplice, soglia facilmente superabile dall’opposizione dopo la netta vittoria alle elezioni legislative dello scorso aprile.

L’opposizione accusa Han di aver partecipato attivamente all’insurrezione di Yoon, ma il vero motivo del contendere è il rifiuto del presidente ad interim di confermare la nomina dei tre giudici mancanti alla Corte costituzionale, nonché la mancata firma di una mozione che prevede l’istituzione di una indagine speciale per insurrezione a carico del presidente sospeso. Il nuovo capitolo di questo dicembre drammatico è stato scritto giorno dopo giorno, con Han che ha ignorato l’ultimatum lanciato dall’opposizione sulla nomina dei giudici, fissato il 24 dicembre.
In assenza delle nomine, l’opposizione teme che possa finire in discussione la legittimità della destituzione di Yoon. Senza contare che ad aprile è previsto il pensionamento di un altro giudice. Han ha dichiarato che rispetterà la decisione ma ora la Corte costituzionale è chiamata a decidere anche sul suo caso. Il che rischia di allungare i tempi di una crisi politica di cui non si intravede la fine.
I poteri passano ora a Choi, che si trova di fronte allo stesso rebus del predecessore: accettare le richieste dell’opposizione facilitando la rimozione definitiva di Yoon, oppure seguire la linea del partito? La forza di governo sta cercando di prendere tempo anche per calcoli politici. Lee Jae-myung, leader dell’opposizione, è in attesa del processo d’appello a suo carico per dichiarazioni false durante la campagna elettorale del 2022. Se condannato, non potrebbe candidarsi alle prossime presidenziali, che in caso di conferma dell’impeachment di Yoon sarebbero fissate entro 60 giorni dalla sentenza della Corte costituzionale.

Qualora Choi non collaborasse, l’opposizione potrebbe avviare l’ennesima mozione di impeachment, strumento pensato come extrema ratio e che ora rischia invece di diventare un’arma normalizzata, da utilizzare per abbattere i rivali politici. Ecco perché il voto di ieri rischia di fissare un pericoloso precedente per la politica sudcoreana, caratterizzata da un bipolarismo pieno di veleni.
I mercati non hanno reagito bene all’impeachment di Han. La borsa di Seul ha chiuso in calo dell’1,02 percento, mentre il won è sprofondato ai minimi dal 2009. Si complica anche il dialogo con alleati e partner. Come ammesso dal ministro degli esteri Cho Tae-yul, la crisi politica sta indebolendo i canali di comunicazione esistenti con il team di Donald Trump, in procinto di insediarsi di nuovo alla Casa bianca. Nel frattempo prosegue l’inchiesta sul tentato golpe militare. Secondo gli inquirenti, il presidente destituito Yoon e uomini della difesa avevano programmato una possibile crisi militare con la Corea del nord, come scusa per la sospensione di una democrazia ora poggiata soprattutto sui piedi di una società civile che continua a manifestare per chiedere di voltare pagina.

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