“Governo indagato”: un caso mal digerito

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I quotidiani del 29 gennaio 2025 riportano a titoli cubitali la notizia del giorno. E che notizia! Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, i ministri dell’Interno Piantedosi e della Giustizia Nordio, il sottosegretario Mantovano sono “indagati” per favoreggiamento e peculato in relazione al “caso Almasri”, ben noto e inquietante. I titoli sono pressoché uguali: Governo indagato. La spettacolarizzazione della notizia, di per sé eclatante, ha portato i media ad esagerarla viepiù, aiutati dalla stessa Meloni che l’ha enfatizzata allo spasimo annunciandola in diretta con suoi personali commenti ed avallando lo scambio tra comunicazione e avviso di garanzia.

La legge costituzionale 1/89, lex specialis “autoapplicativa” quanto al punto in questione (per il resto esistono la legge ordinaria e i regolamenti parlamentari), ha stabilito che la cognizione dei reati ministeriali (di questo si tratta), spetta ai giudici ordinari, previa autorizzazione a procedere della “Camera competente”, individuata dalla legge a seconda che i ministri siano deputati, senatori, non parlamentari, coimputati comuni.

 

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Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – Foto dal suo profilo Facebook

Presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio è istituito un collegio composto di tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte (avete capito bene: l’estrazione a sorte dei magistrati è prevista da più di trent’anni nella Costituzione, proprio a garanzia dell’imparzialità del collegio giudicante i ministri, nientemeno!) tra tutti i magistrati in servizio nei tribunali del distretto che abbiano da almeno cinque anni la qualifica di magistrato di tribunale o qualifica superiore (incidentalmente ricordo che lo stesso criterio è stato proposto, anche da me, per la formazione del Consiglio superiore della magistratura). Il collegio si rinnova ogni due anni.

 

Il tribunale dei ministri

Quando i giornali scrivono “tribunale dei ministri” alludono a questo speciale collegio di tre magistrati, che non è un tribunale perché non possiede la funzione giudicante, bensì i poteri del pubblico ministero (poteri del pubblico ministero, notare bene!) nella fase delle indagini preliminari e i poteri del giudice delle indagini preliminari, compresa la facoltà di disporre d’ufficio l’incidente probatorio. Invece il giudizio vero e proprio spetta in primo grado al tribunale ordinario del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio. Non vi possono partecipare i magistrati del “tribunale dei ministri” che hanno svolto indagini sugli stessi fatti. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applica il codice di procedura penale.

I referti, i rapporti, le denunce contro i ministri devono essere presentati o inviati al procuratore della Repubblica che, senza indugio e senza poter fare altro, “omessa ogni indagine” trasmette “entro il termine di quindici giorni” gli atti al “tribunale dei ministri”, dandone “immediata comunicazione ai soggetti interessati” perché possano presentare memorie allo stesso “tribunale dei ministri” o chiedere di esserne ascoltati. Il “tribunale dei ministri”, entro novanta giorni dal ricevimento degli atti, compiute indagini preliminari e sentito il pubblico ministero, può disporre l’archiviazione oppure restituire gli atti al procuratore della Repubblica motivandogli la richiesta della loro immediata rimessione alla “Camera competente”.

L’archiviazione viene disposta con decreto non impugnabile, ma revocabile dal “tribunale dei ministri” quando sopravvengano nuove prove. Nonostante opinioni contrarie, la Cassazione ha deciso che “il decreto non è assimilabile ad una sentenza ma finalizzato in modo evidente ad impedire il coinvolgimento dei ministri in procedimenti penali sulla base di denunce manifestamente infondate”.

Se la “Camera competente” approva l’autorizzazione, condizione di procedibilità, rimette gli atti al “tribunale dei ministri” che li trasmette al procuratore della Repubblica “non perché questi provveda allo svolgimento di tutta l’attività conseguente alla concessa autorizzazione ma perché partecipi all’attività spettante al collegio esercitando i suoi poteri” (Corte costituzionale, 265/90), e il processo continua secondo la procedura ordinaria, nel senso stabilito dalla Consulta.  Se la “Camera competente” nega l’autorizzazione, l’azione penale si estingue. La natura giuridica del diniego dell’autorizzazione a procedere per reati ministeriali è controversa.

Tre sono le evidenze

l ministro Matteo Piantedosi al 172mo anniversario fondazione corpo della Polizia di Stato – Copyright Lapresse

La prima è che il procuratore della Repubblica, sotto pena di commettere egli stesso un reato, non poteva fare nulla di diverso da quello che ha fatto, cioè comunicare per iscritto (comunicare!) immediatamente agli interessati che, contro di loro, era stata presentata una denuncia con l’ipotesi di favoreggiamento e peculato.

La seconda è che il procuratore della Repubblica non poteva e non doveva compiere alcuna valutazione di natura giuridica o di opportunità politica circa il “trattamento della pratica”, il cui esito formale e sostanziale è nelle mani del “tribunale dei ministri” o della “Camera competente” o della giurisdizione ordinaria.

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La terza è che il procuratore della Repubblica ha iscritto il nome dei ministri nel registro delle notizie di reato “quali persone indicate per i reati di cui agli articoli 110, 314, 378 codice penale”, sebbene la legge costituzionale 1/89 non disponga con riguardo a tale iscrizione. Inoltre, l’iscrizione degli interessati nel comune registro dei reati sembrerebbe non dovuta perché nella fattispecie il procuratore della Repubblica è mero tramite tra denunciante e “tribunale dei ministri” che, esso sì, agisce da pubblico ministero. Esistono numerosi precedenti, anche famosi, di varie fattispecie di procedimenti per reati ministeriali. Niente di nuovo, dunque, neppure la virulenta polemica tra maggioranza e opposizione, ciascuna “pro domo sua”, mentre la magistratura fa da maestrina a entrambe.

Il ministro Carlo Nordio – Foto dal suo profilo Facebook

Alla luce della lex specialis sui procedimenti per reati ministeriali, finché la denuncia non viene incardinata nel “tribunale dei ministri” (il procuratore della Repubblica ha 15 giorni per trasmetterla) non sembrano esistere “indagati”, ma ministri ai quali è stato comunicato che un cittadino ipotizza che abbiano commesso dei reati. La “manifesta infondatezza”, che certuni hanno voluto addurre per “incolpare” il procuratore della Repubblica di aver “sposato” la denuncia, è da escludersi nella fattispecie, sia perché, essendo la “manifesta infondatezza” di stretta interpretazione (ad esempio, il furto della Torre di Pisa), spetta solo al “tribunale dei ministri” valutarla e decretarla, sia per l’eccezionale rilievo politico assunto dal caso, sia per la personalità del denunciante, non un quisque de populo. Dal momento in cui viene protocollata dal “tribunale dei ministri” parrebbe che l’indagine debba considerarsi avviata e i ministri interessati assumano la veste di indagati.

Entro novanta giorni l’indagine potrà concludersi con l’archiviazione del “tribunale dei ministri” oppure con la trasmissione degli atti alla “Camera competente”. Gli atti e i provvedimenti del “tribunale dei ministri” sono considerati “ad ogni effetto” come compiuti o disposti dal tribunale ordinario, davanti al quale viene poi a cessare l’efficacia della lex specialis di rango costituzionale, “autoapplicativa”, e riprende l’ordinaria procedura.

Stando così le cose, il “caso Almasri” poteva e doveva svolgersi al riparo di una maggiore, possibile, doverosa discrezione; esser trattato con moderazione; restare sui piani separati a cui appartengono i suoi complessi risvolti. Troppi pretesti sono stati elevati a pretese politiche e ragioni giuridiche. Tanta inutile spettacolarizzazione da ogni parte, cui prodest? Finora hanno perso tutti. Anche i vincitori apparenti. I poteri istituzionali, purtroppo, sembrano appagarsi d’inzuppare il pane nel loro brodo, troppo bollente per non scottarsi.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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