L’imprenditore rappresenta indiscutibilmente un motore irrinunciabile per lo sviluppo economico delle società moderne. Le aspettative di guadagno agiscono come driver principale dell’azione imprenditoriale, sia per il pioniere dell’innovazione che per i suoi imitatori. Nella teoria economica, l’azione imprenditoriale è stata ampiamente studiata e teorizzata, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale inglese, quando emerse prepotentemente il ruolo dell’innovazione e dell’organizzazione del lavoro nel processo di crescita economica.
Sul finire dell’Ottocento, della questione se ne occupò approfonditamente anche la scuola Austrica, precorritrice del moderno pensiero libertario. Tra i loro maggiori esponenti, Ludwig von Mises e Joseph A. Schumpeter furono quelli che più investirono nella teorizzazione del concetto di imprenditore. Diversamente da Ludwig von Mises e dalla scuola austriaca più ortodossa, Joseph A. Schumpeter applicò il concetto di equilibrio economico generale sviluppato dalla scuola socialista di Losanna, che ebbe come maggior esponente l’economista e matematico Leon Walras, come punto di partenza della sua analisi in senso dinamico.
Partendo dall’idea di un equilibrio statico sviluppato proprio da Walras, Schumpeter arrivò a stravolgere l’analisi, arrivando a concludere che l’imprenditore è fondamentalmente un attore economico che rompe lo status quo per orientare l’economia verso un nuovo equilibrio, caratterizzato da un maggior livello di sviluppo, che non è semplicemente identificabile con il concetto di crescita economica. Dall’idea di un equilibrio statico, egli formulò l’idea di un processo dinamico che porta l’economia e la società ad equilibri dove il livello di benessere aumenta sempre più. Eppure, anche nella teoria di Schumpeter si finisce in un equilibrio, seppur diverso da quello iniziale. La dinamica sta nel processo di passaggio da un equilibrio ad un altro.
La teoria austriaca dell’imprenditorialità, promulgata da Ludwig von Mises, invece, raffigura l’imprenditore come chiunque “acquista a basso prezzo e vende a caro prezzo”, ovvero colui che pratica una sorta di arbitraggio di opportunità. L’azione umana, inoltre, che sta alla base dell’imprenditoria e dello sviluppo economico, è sempre in azione, cosicché, nella visione austriaca, l’idea di equilibrio derivato formalmente non ha alcun senso. Poiché il nome di Schumpeter nella storia si è indissolubilmente legato all’idea di imprenditorialità (la parola imprenditore è di fatto diventata il suo marchio di fabbrica), sembra utile riflettere brevemente su alcune delle differenze tra il suo approccio e quello di L. von Mises, in rappresentanza di molti altri membri della scuola austrica.
Il concetto di Imprenditorialità
Sul concetto di imprenditorialità, la scuola austriaca è sempre stata una eccezione alla regola nella storia della teoria economica. Le basi per questo status d’eccezione furono gettate da Carl Menger (1840-1921), fondatore della scuola. Menger considerava l’imprenditorialità essenzialmente come un “bene” speciale, che non poteva essere né comprato né venduto e quindi non aveva un valore di mercato.
La ragione per cui il lavoro di Menger è considerato come la base per la teoria della natura dell’imprenditore nella vita economica era la sua enfasi sul ruolo che l’ignoranza, l’errore e l’incertezza hanno in tutte le vicende umane. Queste condizioni prevalenti di incertezza creano un’opportunità per collegare l’elemento descrittivo di Menger a proposito dei compiti dell’imprenditore con un’analisi del problema centrale della teoria economica, vale a dire la formazione spontanea dei prezzi. Proprio perché il futuro è incerto, c’è sempre posto per un imprenditore nel processo di scambio sociale.
La “distruzione creativa”
Schumpeter crebbe nella Vienna degli anni d’oro ed ebbe come mentore l’economista della scuola austriaca Eugen von Boehm-Bawerk (1851-1914). Tuttavia, per carattere e inclinazione, egli si sentiva affascinato dalle esperienze culturali che stavano emergendo in quegli anni al di fuori del suo Paese. In particolare, l’afflato di Schumpeter per la filosofia neopositivista che stava emergendo nella rampante Svizzera di fine Ottocento e la sua convinzione che anche gli economisti avrebbero dovuto cercare di basare la loro ricerca sul modello analitico fornito dalle scienze naturali, in particolare dalla fisica, lo portarono a discostarsi decisamente dalla posizione metodologica più basata su una visione olistica di tutte le scienze sociali sviluppata della scuola austriaca, una attenzione che sfociò nella disciplina nota come “prasseologia”, lo studio delle azioni umane.
Ma nonostante Schumpeter fosse straordinariamente affascinato dalla modellizzazione teorica che si stava elaborando in Svizzera grazie alla scuola di Losanna sulle caratteristiche di uno stato di equilibrio economico e ritenesse che questa spiegazione costituisse il fondamento di una scienza economica veramente oggettiva, la sua formazione viennese lo costrinse successivamente a riconoscere che Leon Walras, il maggior esponente della scuola svizzera, avesse creato un modello essenzialmente statico della società, senza prestare molta considerazione e fornendo pochissime intuizioni sui diversi problemi legati al suo sviluppo economico.
Una parte importante degli studi di Schumpeter era in realtà dedicata al tentativo di scoprire come un sistema di equilibrio generale potesse essere trasformato da un modello statico ad uno dinamico. E già nel 1912 egli teorizzò nel suo libro Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung l’importante ruolo che l’imprenditore poteva svolgere in questo processo di trasformazione. Schumpeter era infatti convinto che l’idea statica d’equilibrio generale di Walras avesse una vera rilevanza empirica che forniva una descrizione adeguata delle caratteristiche essenziali di un’economia tipica in circostanze normali e di una società basata sull’idea socialista di “pianificazione” dell’attività economica, nonostante il modello fosse attuabile soltanto sotto l’ipotesi di concorrenza perfetta, tanto da ritenere che Walras avesse con il suo modello risolto il problema della “mano invisibile” proposto circa un secolo prima da Adam Smith.
Ma i cambiamenti economici e qualsiasi forma di progresso tipici di una società orientata al libero mercato sono avviati dall’imprenditore con le sue innovazioni (ciò che Schumpeter definì “ondate di distruzione creativa”) che hanno luogo in economia, causando un progresso continuo. Di conseguenza, poiché per Schumpeter le innovazioni sostituiscono modi di fare esistenti, che vengono così resi obsoleti, questi processi sono da lui ritenuti essenziali per lo sviluppo di un sistema capitalista e di libero mercato e quindi per la crescita economica di lungo termine. È proprio la ripetizione di questi processi che eleva l’umanità a livelli sempre più elevati di benessere. Pertanto, l’imprenditore è per Schumpeter principalmente un “agente di innovazione” che spinge l’economia in avanti rompendo lo status quo, quell’equilibrio walrasiano sul quale i teorici del socialismo puntavano tanto.
Schumpeter credeva anche che nel tempo gli imprenditori avrebbero assunto il ruolo di leader sociali e che in qualche modo essi avrebbero costituito i membri di una classe superiore. Tuttavia, egli era anche convinto che l’imprenditore avrebbe continuato a mantenere il proprio ruolo di leader nella società soltanto finché avesse mantenuto la capacità di perpetuare il processo di distruzione creativa e solo finché fossero continuate a esistere le possibilità oggettive per mettere in moto questo processo. Per Schumpeter alla fine si sarebbe raggiunto un punto di equilibrio in cui tutte le energie creative della classe imprenditoriale e tutte le opportunità di innovazione saranno state esaurite e uno stato conclusivo di equilibrio socioeconomico sarebbe stato raggiunto. Tale ordine sociale avrebbe adottato i caratteri di una società socialista altamente burocratizzata, in cui l’imprenditore sarebbe stato sostituito da tecnocrati nominati politicamente. In definitiva, e paradossalmente, Schumpeter arrivò a teorizzare niente meno che un equilibrio walrasiano finale, la conclusione di un processo dinamico di innovazione, senza considerare che il processo di scoperta continua avrebbe potuto significare l’assenza del tutto di un equilibrio finale, ipotesi invece nota alla scuola austriaca.
Socialismo: un’analisi economica e sociologica
L’approccio di Mises all’analisi dell’imprenditorialità fu invece esposto nel suo libro rivoluzionario Die Gemeinwirtschaft. Untersuchungen über den Sozialismus (1922) in cui egli dimostrò l’impossibilità del calcolo economico (spesso impropriamente confuso con il concetto di “pianificazione”) in qualsiasi società socialista. Una traduzione inglese apparve come Socialism: An Economic and Sociological Analysis (1936). Tuttavia, Mises sviluppò la sua teorizzazione completa del ruolo dell’imprenditore soltanto nel suo magnum opus Nationalökonomie. Pubblicato nel 1940 a Ginevra e a causa della Seconda guerra mondiale, il libro non raggiunse molti lettori e quindi rimase quasi completamente inascoltato. La traduzione inglese pubblicata successivamente nel 1949 con il titolo Human Action: A Treatise on Economics dalla Yale University Press, consolidò la reputazione di Ludwig von Mises negli Stati Uniti.
Mises fornì tre diverse interpretazioni al significato del termine “imprenditore”. Primo, Mises si riferì a uno stereotipo ideale weberiano che conteneva una serie di elementi non tutti descrivibili dalle categorie della teoria economica. In secondo luogo, egli si riferì a qualsiasi decisore economico che fosse particolarmente attivo nel tentativo di trarre profitto dai cambiamenti nelle condizioni di mercato e nell’aiutare a realizzare tali cambiamenti. Infine, Mises discusse una categoria puramente prasseologica.
Secondo Mises, infatti, la prasseologia era la scienza generale dell’azione umana e pertanto la disciplina dell’economia era da considerarsi semplicemente come una branca della prasseologia. Poiché egli considerava il concetto di equilibrio come un obiettivo mobile che non può mai essere raggiunto nella vita reale e che fondamentalmente non ha alcun significato empirico, rifiutò conseguentemente di accettare l’idea che l’attività imprenditoriale comportasse qualcosa di distruttivo. Cambiamenti inaspettati nelle condizioni con le quali gli attori economici si confrontavano avrebbero sempre cambiato la natura dell’obiettivo stesso. Questo “dinamismo continuo” era di fatto un disconoscimento della possibilità di giungere ad un equilibrio walrasiano dell’economia. Una conclusione in aperto contrasto con quella teorizzata da Schumpeter e, ovviamente, dallo stesso Walras.
Poiché Mises si preoccupava di analizzare la figura dell’imprenditore in senso puramente prasseologico, egli raggiungeva costantemente conclusioni opposte a quelle a cui giungeva l’approccio schumpeteriano. Invece di disturbare uno stato di equilibrio, infatti, l’imprenditore per Mises era sempre un individuo-agente che con le sue azioni aiutava a ridurre lo squilibrio nelle attività umane. Quindi, la stessa idea di imprenditorialità era per lui una componente logica di tutte le azioni e degli scambi futuri. Poiché tutte le azioni umane sono intraprese con la convinzione razionale di poter con esse stare meglio di quanto non si starebbe altrimenti, gli individui tentano di migliorare la propria posizione utilizzando la competizione come processo di scoperta che porta a questi scambi.
Per la scuola austriaca l’attività imprenditoriale è quindi sempre qualcosa di simile a un arbitraggio, una forma di vendita e acquisto simultanei. Se gli individui agiscono correttamente e hanno buone capacità di previsione raccolgono profitti dalla loro attività imprenditoriale, altrimenti subiscono delle perdite. Nessuna teoria dell’equilibrio, walrasiano o schumpeteriano che sia, potrebbe spiegare questo tipo di attività, per la semplice ragione che in una situazione di equilibrio tutti i profitti e le perdite imprenditoriali sono nulli. Per i membri della scuola austriaca, in sintesi, la scoperta di nuove opportunità di profitto crea un movimento di risorse marginali nelle linee di produzione in questione. Ciò fa aumentare l’offerta, abbassa i prezzi ed elimina gradualmente quella componente del rendimento che potrebbe essere definita come “puro profitto imprenditoriale”. Quando si subiscono perdite, si mette in moto un processo inverso: se il mercato dovesse effettivamente arrivare a una posizione di equilibrio finale, gli unici profitti dalla produzione che rimarrebbero sarebbero salari e interessi.
In una economia di libero mercato, il peso dell’incertezza tende a ricadere sugli individui che sono particolarmente disposti o attrezzati e in grado di accettarla. Per Mises questo ruolo di leadership non può essere insegnato, ma è acquisito dall’essere umano attraverso intuizioni superiori e persiste finché esiste la divisione del lavoro. In generale, inventori, speculatori o commercianti assumono sempre questo ruolo che esteriormente ha molto in comune con quello descritto da Schumpeter. Tuttavia, nella tipica visione della scuola austriaca, tutti gli individui sono in un certo senso e a loro modo imprenditori, almeno finché la logica delle scelte li costringe a scegliere un corso di azione rispetto a un altro. Un principio di libertà che nell’analisi walrasiana è del tutto assente.
K. R. Leube – Stanford University e Liechtenstein Academy Foundation. Il testo è stato integrato da Emanuele Canegrati, Pubblicato originariamente sul sito dell’ECAEF
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