Il problema di dare un nome ai vini

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In venticinque anni di giornalismo enologico ne ho viste di tutti i colori. Ho cominciato quando la parola “barrique”, evocativa di rivolte anche gastronomiche, apriva tutte le porte – la gente cercava vini barricati – mentre oggi suscita pruriti se non addirittura repulsioni, tanto che i sommelier spesso si sentono in dovere di specificare con piglio deciso, mescendo un vino: “solo acciaio”, anzi una sola parola “soloacciaio”, anche se spesso il cliente non capisce che cosa voglia dire. Per chiarire: significa «vinificato solo in acciaio, ossia non è stato né fermentato né maturato in legno e, soprattutto», vorrebbe dirvi il sommelier, «non è stato profanato dalla maledetta barrique!».

Ho cominciato negli anni Duemila quando i clienti di un’enoteca chiedevano «Champagne», specificando «ma italiano, mi raccomando»; ossia i francesi avevano conquistato l’antonomasia delle “bollicine”, come si dice oggi, e nell’immaginario collettivo il loro prodotto rappresentava tutti gli spumanti del pianeta, mentre oggi molti consumatori chiamano «Prosecco» qualsiasi cosa spumeggi, grazie alla forza di quasi un miliardo di bottiglie diffuse per il mondo ogni anno.

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In questi venticinque anni, oltre al successo commerciale del citato Prosecco, alcuni vini italiani hanno raggiunto vette di rinomanza internazionale: Amarone della Valpolicella, Barolo, Brunello di Montalcino. Oggi sta esplodendo, perdonate la metafora, l’Etna, i cui vini bianchi (da uve Carricante) e rossi (da uve Nerello) hanno conquistato molti mercati e quotazioni da primi della classe, specialmente negli Stati Uniti.

Nonostante questi venticinque anni, però, è stato passeggiando tra i banchi di una degustazione che un’amica giornalista mi ha colto con una domanda inattesa: «Ma secondo te, che cosa decreta il successo di un vino?» Com’è che il Sassicaia diventa Sassicaia?, in sostanza. Accidenti. Ecco cosa vuol dire pensare fuori dalla scatola, «out of the box» come dicono gli inglesi (in inglese). Sono abituato a spiegare in cosa differisce un Barolo da un Brunello di Montalcino, e per i più raffinati cosa distingue il Barolo di La Morra da quello di Serralunga d’Alba. Ma a lei non incuriosiva la differenza tra la viola mammola del Barolo e il tabacco del Brunello. Le interessava capire la moda, cioè come accade che, a un certo punto, il Barolo sia diventato un mito planetario, e perché tutti ordinano improvvisamente Pinot grigio, poi Gewürztraminer e dopo due anni vanno pazzi per la Passerina o per il Pecorino (il vino, non il formaggio). Insomma, come nascono le mode del vino?

Ora, la mia interlocutrice è troppo intelligente per accontentarsi di una risposta generica e scontata: «È il marketing, bellezza». È ovvio che ciò che porta milioni di persone a chiedere un calice di un determinato tipo di vino non è certo, o comunque non solo, il suo profumo intenso di rosa o gelsomino, che sono due note olfattive distintive del Gewürztraminer. Ed è ovvio che a rendere il Merlot un rosso particolarmente affascinante non è soltanto la sua caratteristica gustativa: il suo tannino setoso, ovvero quella sensazione meno aggressiva e meno astringente che provoca sulla lingua rispetto all’arroganza di un Cabernet o al piglio “ignorante” di un Nebbiolo giovane?

Da comunicatore e appassionato di questo straordinario simbolo della civiltà occidentale che è il vino, vorrei tanto che il suo caleidoscopico manifestarsi, che trae le sue ragioni da una rara complessità di fattori, attirasse eserciti di connoisseurs o aspiranti tali. Ma questo accade solo per una minoranza di persone che cercheranno nel vino sfumature di suoli (c’è un abisso tra calcare o sabbia), di climi (quanto è diverso uno Chardonnay della Francia del Nord rispetto a uno siciliano), di know-how e scelte stilistiche (che si ottengono per esempio prendendo decisioni relative alla vinificazione – diverse temperature di fermentazione – e all’affinamento, scegliendo contenitori di diverso materiale – acciaio, legno, cemento… – e di diversa capienza).

Ma se ad attirare tante persone verso un vino non sono le sue qualità organolettiche, quale specifica leva del marketing sarà determinante? Prendiamo le quattro celebri “P” teorizzate da Philip Kotler: price (prezzo), product (prodotto), place (distribuzione) e promotion (promozione). È evidente che il prezzo, nel caso del vino “edonistico”, cioè bevuto per il piacere di degustarlo, non fa molta differenza, se non in casi eclatanti: difficilmente, se desiderate assaggiarlo, rinuncerete a un Etna a 7 euro al calice per un generico Sicilia Doc da 5.

Del prodotto abbiamo già scritto: di solito non sono le qualità organolettiche di un vino ad attirare il consumatore, a parte alcuni casi (alcuni vitigni aromatici sono ricercati proprio a causa della loro riconoscibilità, soprattutto dai neofiti che sono incapaci di distinguere le sfumature dei vini non-aromatici, ma restano piacevolmente storditi dall’intensità olfattiva di uno Zibibbo o di Gewürztraminer, che è un’altra uva super aromatica).

Place. Il “dove” è meno importante di quanto sembri, nei meccanismi di scelta dei consumatori di vino, ma lo è molto per le dinamiche distributive e commerciali che, in un comparto altamente competitivo, sono decisive. In linea generale, al grande pubblico dei bevitori occasionali, non importa molto dove è piazzato il vino: anzi, più è reperibile a un prezzo accettabile, meglio è. E infatti i più giovani acquistano sulle grandi piattaforme di e-commerce. D’altro canto, molti appassionati si insospettiscono quando trovano al supermercato un vino che ritengono pregiato. E viceversa: insospettisce anche l’enoteca che sullo scaffale ha lo stesso prodotto visto nella grande distribuzione organizzata (Gdo), cioè super, iper ecc. Peccato che alcuni simboli del lusso enologico, compresi rinomati Champagne o Franciacorta, se ne infischino e si facciano trovare ovunque. E ancora: un’enoteca difficilmente sarà in grado di avere un prezzo competitivo per un vino presente anche nella Gdo che, acquistando migliaia di bottiglie, può ottenere un prezzo vantaggioso. Nella veste secondaria di titolare di un’enoteca a Milano, mi è capitato di scovare al supermercato un “nostro” Champagne venduto al prezzo cui noi stessi lo stavamo acquistando (lo abbiamo eliminato subito perché ci sarebbe stato impossibile spiegare ai clienti l’enorme differenza di prezzo. Hai voglia a giustificarti con il “servizio”). La conclusione è che, per il successo di un vino, il luogo in cui viene venduto alla fine non c’entra.

Anche la promozione c’entra fino a un certo punto: sconti, concorsi a premi, acquisto di spazi espositivi esclusivi in certi luoghi difficilmente creano il fenomeno, la corsa di massa a un vino o all’altro. Possono certamente rafforzare un brand, ma poco di più. Qualcuno avrà notato negli aeroporti muraglie di scintillanti bottiglie dorate di una certa marca di Prosecco Doc, o eleganti bottiglie di un apprezzato spumante Trentodoc che svettano soprattutto dove si disputano gare automobilistiche, in quanto sponsor ufficiale della Formula 1… queste strategie hanno un senso per costruire il valore di una marca, ma probabilmente non spostano ammirazione o preferenze in termini più ampi, di tipologia (Prosecco) o territorio (Trentodoc).

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Al termine di questa dissertazione infruttuosa, ho spiazzato la mia amica con un’ipotesi a cui neppure io avevo mai pensato prima: il nome. Se ripenso a ciò che ho visto e sentito in questi venticinque anni, credo che un nome “giusto” abbia spostato più preferenze di tutti gli altri fattori elencati sopra. Ma cos’è il “nome” di un vino? La materia è affascinante, ma necessita di qualche spiegazione. Barolo e Nebbiolo, per esempio, sono entrambi nomi e sono entrambi vini, ma non sono la stessa cosa.

Il Barolo è un vino a Docg (Denominazione di origine controllata e garantita), ma il suo nome indica un luogo (Barolo è un Comune delle Langhe in Piemonte) dove si produce un rinomato vino invecchiato ottenuto da uve Nebbiolo. Nebbiolo, dunque, è il nome di un’uva, cioè di un vitigno. Ma Nebbiolo può anche essere il nome del vino prodotto con queste uve, in molte altre zone vinicole diverse da Barolo, come il Nebbiolo d’Alba, per esempio. È la Doc (Denominazione di origine controllata, un gradino sotto la Docg nella piramide qualitativa della legislazione italiana). Oggi il Nebbiolo – come vitigno, quindi i vini che ne derivano – tira molto tra gli appassionati. Per questo, a un cliente che chiede «un Nebbiolo», il sommelier dovrà spiegare che la scelta può spaziare da quello più semplice, “d’Alba”, sino ai pregiati Barolo e Barbaresco, al Gattinara, al Roero, al Carema e tanti altri grandi vini prodotti con questo vitigno. Lo stesso discorso vale per il Sangiovese, uno dei vitigni più diffusi in Italia, con cui si producono sia il Chianti Classico, sia il Brunello di Montalcino sia molti altri vini toscani e del Centro Italia.

La mia ipotesi è che questi “nomi”, corrispondenti al vino di un territorio specifico (Barolo) o a un più generico vitigno (Nebbiolo), abbiano un ruolo decisivo nel decretare il successo o l’insuccesso di un vino. Negli Stati Uniti, per esempio, il Pinot grigio, pronunciato con quella seconda “g” molle un po’ staccata dalla “i” (“grig-io”), è stato un enorme fenomeno di costume. E così il Chianti, che negli Usa è spesso pronunciato «cianti». (La piccola zona particolarmente vocata alla qualità nel Chianti Classico che si chiama Montefioralle è difficile da pronunciare in molti posti).

Anche il successo che negli ultimi dieci anni hanno avuto i vini/vitigni Pecorino e Passerina, tra Marche e Abruzzo, è probabilmente legato alla simpatia che suscitano i due nomi. Il nome del già citato Merlot, imperatore degli anni Novanta-Duemila, è facile da ricordare e quando ti raccontano che si chiama così perché i merli ne vanno ghiotti, lo ricordi più facilmente, magari con un sorriso. E lo stesso vale per le nebbie del Nebbiolo (perché lo si coglie in autunno inoltrato quando salgono le prime nebbie…) o per il sangue di Giove, del Sangiovese. Per non dire del Pagadebit di Romagna, un vino che è già un programma, ma purtroppo poco diffuso, forse perché non ha mantenuto la sua promessa finanziaria. E ancora il Primitivo, facile da ricordare e dal gusto caldo e avvolgente, spesso dal sapore amabile. Potrebbe addirittura accadere che una corrispondenza sensoriale o semantica ci possa attrarre o tenere lontani da un vino o da un gusto immaginato? È difficile dirlo, anche se il neuromarketing sta ottenendo risultati sorprendenti, non solo per il vino, studiando ciò che le etichette accendono nella mente del consumatore.

E il successo dell’Etna, uno dei luoghi più affascinanti d’Italia, sarebbe stato lo stesso se fosse stato venduto come Carricante (il vitigno con cui si produce la versione in bianco) o Nerello (per la versione in rosso)? Proprio in Sicilia hanno recentemente affrontato un’altra grande questione “nominale”: come vendere il Catarratto (vitigno molto diffuso nel trapanese) con questo nome cacofonico? La soluzione è stata dare maggiore rilievo al secondo nome (infatti per intero si chiama “Catarratto lucido”) nella speranza che col nome Lucido torni a brillare. Più in generale, pensiamo al successo dei nomi che evocavano luoghi francesi, quando un centinaio di anni fa si potevano usare liberamente anche per vini prodotti in Italia: Champagne per tutti gli spumanti o Chablis per i bianchi, per esempio. Molto del successo dei cosiddetti vitigni internazionali (Chardonnay, Sauvignon blanc, Cabernet, Merlot…) è insito nel fascino del loro nome, al netto di caratteristiche viticole di vitigni giramondo che si adattano a climi e terreni molto diversi.

Resta un mistero il Gewürztraminer, che ha un nome così difficile da pronunciare che sui social media si sprecano i tutorial per insegnare a dirlo correttamente. Eppure c’è stato un momento in cui sembravano tutti impazziti per questo vitigno che, in Italia, trova la massima espressione in Alto Adige. È probabile che in questo caso la sua personalità debordante e riconoscibile abbia avuto la meglio, superando qualsiasi ostacolo di pronuncia.



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