il processo Agostino e le storie senza giustizia delle vittime di mafia

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La Cassazione ha annullato la condanna al boss Madonia per l’omicidio dell’agente Nino Agostino. Storia universale dei delitti impuniti delle mafie

L’amara verità è che una verità non c’è quasi mai. Possiamo dirlo con certezza quando si tratta di delitti di mafia. I caduti civili uccisi dai clan delle quattro più potenti organizzazioni criminali italiane sono migliaia. Vittime di una guerra impari: da un lato eserciti armati, dall’altro cittadini e cittadine che hanno combattuto con i loro no ai compromessi.

La percentuale dei familiari che hanno potuto assistere a un processo contro gli assassini dei loro cari è irrisoria rispetto al numero delle vittime. Come innumerevoli sono i casi in cui quegli omicidi hanno ricevuto una superficiale attenzione delle procure per finire rapidamente nello scaffale indagini archiviate contro ignoti.

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La storia processuale del duplice omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida Casteluccio rientra nella prima categoria. Sono stati uccisi il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini, provincia di Palermo. Casteluccio era incinta. I processi ci sono stati, ma nel più classico stile nostrano: mezze verità arrivate a distanza di trent’anni, sentenze ribaltate, indagini non sempre eccellenti.

Si è arrivati così alla pronuncia della Cassazione: annullato l’ergastolo a Nino Madonia, tra i capi supremi della stagione stragista progettata dal sanguinario padrino Totò Riina e chissà da quale altra mente «raffinatissima» esterna a Cosa nostra e interna allo Stato, tuttora ignota. In pratica i giudici della Suprema corte hanno deciso che sarà necessario un nuovo processo d’appello.

Nino Agostino era un poliziotto ufficialmente assegnato al servizio volanti, in realtà operativo in una unità speciale dei servizi segreti a caccia di latitanti della mafia siciliana. Negli anni aveva stretto un rapporto con il giudice Giovanni Falcone, e stava indagando sulle trame nere intrecciate a quelle grigie di Cosa nostra.

Un lavoro ad alto rischio in quegli anni di guerra dichiarata allo Stato. «Tutto questo lo aveva introdotto in quello spazio di contiguità in cui si verificavano le connessioni illecite tra mondo mafioso ed apparati dello Stato. Aveva visto incontri tra mafiosi ed esponenti delle istituzioni. O comunque aveva compreso il significato illecito delle relazioni sistemiche tra i due mondi.

Manifestando la volontà di non finire in questo calderone, Agostino aveva guadagnato l’ostilità non solo di Cosa nostra, ma anche interna del suo mondo. In particolare di coloro nelle istituzioni che temevano che Agostino potesse rivelare quanto aveva vissuto e soprattutto quanto aveva visto». Questo è un passaggio della requisitoria del procuratore generale in corte d’appello che aveva portato alla condanna di Madonia, poi annullata dalla Cassazione.

Il padrino, che è detenuto in regime di carcere duro, ha commesso un’infinità di stragi e omicidi: è stato esecutore materiale, per esempio, dell’uccisione di Pio La Torre, il segretario del Partito comunista in Sicilia. Ed è indagato tuttora per l’esecuzione dell’allora presidente della regione Piersanti Mattarella, fratello del presidente della Repubblica. Delitti eccellenti, con pezzi di verità mancanti, come quelli che legano questi fatti all’alleanza tra mafia ed eversione neofascista.

La barba e la memoria

Più i delitti hanno una radice occulta, frutto di alleanze oscure, maggiore è la probabilità che non si arrivi a una verità giudiziaria. O che la ricerca di questa verità sia ostacolata da depistaggi, imbrogli, coperture. C’è da rabbrividire a pensare quanti autori e mandanti di tali operazioni sono ancora in circolazione.

Lo sapeva bene il padre di Nino Agostino, Vincenzo, morto a 87 anni ad aprile scorso. Suo malgrado è diventato un simbolo dell’antimafia e dei familiari delle vittime delle mafie: per 35 anni ha lasciato crescere la sua barba bianca, con la promessa di tagliarla il giorno in cui avesse ottenuto giustizia per suo figlio. Non ha fatto in tempo a radersi, si diceva nei giorni della sua scomparsa. In realtà oggi è più corretto dire che quella barba l’avremmo vista allungarsi ancora e ancora, aspettando giustizia, forse un giorno chissà.

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La barba del papà di Nino Agostino è metafora delle ferite mai cicatrizzate di troppi padri, madri, figli, fratelli e sorelle. Diventata simbolo del vuoto che esiste tra diritto e verità. Il primo fondato sui codici da rispettare proprio di uno stato democratico, la seconda alimento necessario per sopravvivere al lutto traumatico affrontato dalle famiglie delle vittime.

Istituzioni incapaci di far coincidere il diritto, dunque la giustizia, con la verità producono sfiducia nello Stato. L’indifferenza rispetto a storie di uomini e donne, persone comuni senza un particolare ruolo pubblico, trucidate dalle lupare e dai mitra delle organizzazioni mafiose, ha una ulteriore conseguenza: la richiesta di giustizia si trasforma in desiderio di vendetta, covata nell’umiliazione di anni trascorsi nell’isolamento del proprio dolore.

C’è solo una un antidoto a questo abisso: ascoltare questa sofferenza. Il nipote di Agostino ha commentato: «Noi continuiamo, lottiamo contro tutti, mafia e istituzioni deviate fino a quando non ci daranno verità e giustizia». Forse è arrivato il momento di aprire gli armadi della vergogna, scavare lì dove manine sconosciute hanno nascosto prove di complicità altissime.

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