Una tecnologia sostenibile contro la deforestazione in Madagascar – Frontiere

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 


Andrea Turolla

In molti Paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa, è comune l’utilizzo di legname da foresta primaria, o del carbone da esso ricavato, quale combustibile per la cottura degli alimenti in bruciatori malsani e poco efficienti. Se da un lato il consumo di legna comporta ingente deforestazione con rilevanti impatti ambientali, dall’altro rappresenta un problema sanitario legato al rischio di infezioni respiratorie.

La ricerca CHAR:ME propone una soluzione al problema attraverso la progettazione di una filiera alternativa, basata sul recupero e la trasformazione degli scarti organici locali in combustibili solidi in grado di sostituire i combustibili convenzionali. Il progetto è finanziato con i fondi Polisocial Award per l’edizione 2022 (“Sviluppo Locale e Transizione Ecologica”).

Abbiamo chiesto ad Andrea Turolla, professore associato del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale (DICA) e responsabile scientifico di CHAR:ME, di raccontarci questa esperienza.

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

Scena di vita in Madagascar

Professore, cominciamo dal contesto. Cosa dobbiamo immaginarci quando parliamo del Madagascar?

Dobbiamo pensare a un contesto estremamente ricco dal punto di vista naturalistico ma anche carico di paradossi. Si tratta infatti di un Paese con un patrimonio naturale enorme in termini di biodiversità, uno dei massimi picchi dell’intero pianeta, ma dove queste risorse sono messe a rischio da pratiche molto dannose.

Una di queste è l’impiego di legna presa in natura allo scopo di scaldare e cucinare, bruciandola direttamente o producendo carbone di legna (charcoal); legname duro, in molti casi pregiato o proveniente da specie vegetali protette.

Queste pratiche contribuiscono alla perdita delle foreste primarie che danno un valore inestimabile all’isola (anche in quanto meta turistica) e generano problemi sanitari legati alle modalità di combustione, spesso caratterizzate dall’utilizzo in ambienti chiusi e privi di adeguata ventilazione.

Tra le altre conseguenze sociali c’è pure il fatto che gli abitanti investono molto tempo nel corso della giornata per l’approvvigionamento delle risorse, alle volte in condizioni che espongono a rischi le parti più fragili della popolazione. D’altra parte, queste pratiche sono molto radicate nella cultura tradizionale malgascia, un aspetto importante di cui bisogna tenere conto.

Esiste una coscienza ambientale in Madagascar?

Si tratta di un contesto molto rurale, in cui si percepisce una forte dicotomia tra un legame profondo con la natura, rafforzato pure da aspetti di natura spirituale, e una coscienza poco sviluppata dell’ambiente e delle conseguenze di certe abitudini. D’altra parte, si tratta di una situazione confrontabile con molte altre parti del mondo, spesso localizzate nei contesti cosiddetti “sviluppati”, in cui le sfide non sono le stesse ma spesso è scarsa la consapevolezza dell’importanza di conservare la natura. 

Nel contesto del progetto così come in tante altre realtà, quella ambientale è una sfida ancora da giocare.

Qual è l’anima della ricerca CHAR:ME?

Al di là della sua finalità sociale e ambientale, il progetto ha due anime principali: una connessa allo sviluppo della soluzione tecnologica e l’altra alla sua efficace diffusione, ovvero alla prototipazione del processo che potrà permettere a questa stessa soluzione di attecchire in un contesto come il Madagascar, con tutte le sue specificità sociali, culturali ed economiche. Si tratta di due aspetti intimamente legati tra loro, perché il presupposto fondamentale di CHAR:ME è quello di introdurre delle innovazioni tecnologiche che, nella loro implementazione, possano e vogliano essere adottate dalla popolazione locale, dopo averne visto i benefici e la compatibilità con il contesto.

La prima scatola di bricchette prodotte da CHAR:ME, pronte alla distribuzione e all’utilizzo
La prima scatola di bricchette prodotte da CHAR:ME, pronte alla distribuzione e all’utilizzo

Partiamo dalla tecnologia

Il principio è semplice e si traduce in due fasi principali: la produzione di bricchette e la loro trasformazione in carbone tramite un processo di pirolisi.

Sconto crediti fiscali

Finanziamenti e contributi

 

La prima è, in sostanza, la compressione fisica – tramite appositi macchinari – di una biomassa, che permette di trasformare quest’ultima in un materiale abbastanza compatto da assomigliare alla legna.

Il secondo processo si ottiene con uno specifico forno pirolitico che trasforma le bricchette di biomassa in carbone, fissando il carbonio in materia solida anziché disperderlo in atmosfera in forma di CO2, grazie ad una combustione lenta in presenza di quantità limitate di ossigeno. Questo processo, già utilizzato da millenni, permette di ottenere carbone confrontabile con quello prodotto da legna utilizzato a scala domestica senza l’impiego di legname preso in natura, bensì riutilizzando materiali di scarto che attualmente non hanno alcun valore.

Nel nostro caso stiamo valutando il possibile riutilizzo degli scarti delle numerose segherie presenti nella regione di Nosy Be, l’area di studio. Altri possibili sottoprodotti di scarto sono legati alle produzioni agricole locali, come la vaniglia e l’ylang-ylang.

Oltre che più sostenibile, è anche una soluzione realistica?

È esattamente ciò su cui stiamo lavorando: la fattibilità nel lungo termine. Mentre la componente connessa allo sviluppo della tecnologia in sé è la parte più “facile” del progetto, la prototipazione della stessa nel contesto locale ci ha messi di più alla prova. La sfida risiede nel trovare una soluzione che sia almeno altrettanto semplice, efficace ed economica rispetto a quella che si vuole sostituire, nonché in grado di innescare uno sviluppo economico positivo e radicato nel contesto.

Esistono sicuramente delle tecnologie più sofisticate, moderne ed efficienti di quella che noi proponiamo, ma che non hanno attecchito una volta sperimentate in contesti simili a quello del nostro progetto a causa di barriere socioculturali ed economiche, determinando così il fallimento di interi progetti. È proprio quello che noi vogliamo evitare. Per questo, il percorso di progettazione è stato svolto con il supporto di Kukula Onlus, attraverso un percorso partecipato che ha coinvolto la popolazione e i portatori di interessi locali.

Il primo pranzo cucinato sulle bricchette da Kenyo e Aristide, componenti locali del team
Il primo pranzo cucinato sulle bricchette da Kenyo e Aristide, componenti locali del team

Si possono cambiare i comportamenti delle persone?

La propensione al cambiamento spesso non è l’aspetto caratterizzante della natura degli esseri umani, in Africa come in Europa. Eppure sì, è possibile, tant’è che il cambio comportamentale e delle abitudini è oggetto di una vera e propria disciplina (di cui si occupa, tra gli altri, anche il nostro consorzio Poliedra).

La chiave sta tutta nell’approccio alla prototipazione, che nel nostro caso rappresenta una parte fondamentale della ricerca, forse la più difficile, e costituisce la vera sfida in un progetto di cooperazione internazionale come CHAR:ME. È la fase in cui ci troviamo ora, quella del trasferimento sul campo e dell’“attecchimento” della tecnologia nel contesto sociale ed economico, con l’obiettivo di creare una filiera che si autosostenga, a partire dallo studio del panorama produttivo e lavorativo locale.

Prestito personale

Delibera veloce

 

Tutto comincia dal capire il punto di vista dei diversi portatori di interessi coinvolti. Da un lato, ad esempio, il successo del progetto si basa sulla disponibilità delle imprese locali a cedere ad altri i propri scarti produttivi, e ciò significa andare a parlare direttamente con i produttori e vagliare la loro disponibilità a stabilire dei rapporti con altri operatori, cedendo della materia che può essere trasformata.

Dall’altro lato, forse in un senso ancora più rilevante, serve che le persone siano aperte a lasciare il combustibile convenzionale per quello innovativo, adottandolo nelle abitudini di vita. Si tratta di passaggi critici e complessi, che non starà a noi guidare.

La conclusione è la stessa di moltissime altre problematiche ambientali e sociali: la vera sfida non è tecnica, ma sociale.

Ci descriva questa ipotetica filiera

Dopo uno studio dei flussi di materiali di scarto, ora stiamo lavorando soprattutto con segherie e distillerie locali, le prime come fornitrici di materia prima (la biomassa), le seconde come possibile sede dei processi di trasformazione, affinché possano recuperare il calore generato nel corso del processo pirolitico per uso proprio (industriale). In futuro ci immaginiamo che tutto ciò possa svilupparsi in un modello cooperativo, auspicando delle forme di autorganizzazione nel territorio.

Dei primi passi li stiamo già facendo; ad esempio, le bricchettatrici sono costruite in loco da un fabbro che sta lavorando con grande interesse verso la progettualità. Lo stesso vale per il forno pirolitico, riprodotto in loco modificando barili di petrolio usati, che lì sono facili da reperire.

In questo modo, a partire dall’idea stiamo sviluppando un prototipo con un processo partecipativo e calato sul contesto di applicazione, calibrando il downgrading della tecnologia così da renderla appropriata e replicabile, compatibilmente con le competenze e le risorse disponibili localmente.

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

Il team di CHAR:ME in campo prima dell’accensione del prototipo di forno pirolitico
Il team di CHAR:ME in campo prima dell’accensione del prototipo di forno pirolitico

La vostra è una ricerca interdisciplinare. Come nasce il team CHAR:ME?

Da incontri fortuiti e conoscenze di vecchia data che sono tornate utili.

Sul fronte del Politecnico, le persone-chiave che compongono il team CHAR:ME sono Matteo Pelucchi, che si occupa di processi di trasformazione termochimica (fare il carbone è uno di questi) al Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica, Mauro Bracconi del Dipartimento di Energia, che si è preso in carico gli aspetti energetici e di sviluppo del reattore pirolitico, Renato Casagrandi, esperto degli aspetti di sostenibilità e biodiversità presso il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, e Annalisa Balloi del TTO, che supporta la parte cruciale di promozione e trasferimento tecnologico verso il contesto locale.

E poi c’è il partenariato…

Certo. E tengo a sottolineare che non saremmo riusciti a raggiungere nessuno dei risultati senza questa componente esterna.

È stata fondamentale Kukula Onlus, fondata nel 2019 fa da un gruppo di nostri ex-studenti che hanno scelto un modo diverso di fare gli ingegneri ambientali, ovvero lavorando allo sviluppo di progetti di cooperazione internazionale. L’associazione, che ci ha fatto capire l’importanza di decostruire un immaginario ancora influenzato dal colonialismo nell’approcciarsi a questo tipo di progetti, è attiva da molti anni nel contesto di applicazione ed è stata un intermediario fondamentale con i portatori di interessi locali.

Un altro partner di grande importanza è stata Blucomb, una piccola società friulana che sviluppa e produce stufe pirolitiche sulla scorta di molti anni di esperienza maturata in Africa in progetti simili al nostro. Oltre alla straordinaria disponibilità e competenza di Davide Caregnato, Daniele Della Toffola e Carlo Ferrato, Blucomb è stata essenziale per la generosa condivisione del know-how di enorme valore per la realizzazione di stufe pirolitiche adatte all’applicazione nel contesto africano.

Infine, ultimo in descrizione ma per niente nei fatti, Demetra Società Cooperativa Sociale Onlus è stata un altro partner di rilievo per via delle competenze messe a disposizione in materia di valutazione del ciclo di vita (LCA), che sono state applicate in maniera eccellente da Guido Scaccabarozzi per stimare quantitativamente i benefici ambientali resi possibili dalla soluzione tecnologica.

Qual è la chiave del successo di questo team?

La capacità di far lavorare in maniera sinergica e armonica un gruppo composto da tante individualità caratterizzate da grandissimo valore professionale e umano. E di questo una grande parte del merito va reso ad Andrea Scialabba di Kukula Onlus, instancabile e gentile direttore di orchestra della comunità che si è creata attorno a CHAR:ME, dalle persone già citate a tanti altri protagonisti più o meno importanti di questa storia.

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 

Il team di CHAR:ME assieme alla comunità dell’isola di Nosy Mitsio
Il team di CHAR:ME assieme alla comunità dell’isola di Nosy Mitsio

Cosa state imparando da CHAR:ME? Applicherete questa esperienza a progetti futuri?

Per me e per tanti dei colleghi del Politecnico si è trattata della prima esperienza in un progetto di cooperazione internazionale. La principale lezione che ne stiamo traendo è che i tempi di lavoro nei Paesi in via di sviluppo sono completamente diversi, e che è bene abituarsi a dei processi più lenti. CHAR:ME è un progetto di durata e budget limitati, che ha mostrato enormi potenzialità e che ci ha aperto uno sguardo verso nuove prospettive. In primo luogo, ci piacerebbe redigere delle linee guida per la replicazione della soluzione tecnologica altrove e sviluppare i contenuti in un progetto più grande e che coinvolga più Paesi, dato che le medesime problematiche riguardano un contesto ben più ampio del Madagascar. Posso dire che ci stiamo già lavorando.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link