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Israele-Palestina. Dialogo e e educazione contro l’odio
In Italia su progetto della Federazione delle chiese evangeliche le donne del villaggio dove convivono ebrei e arabi
«Le divisioni, i litigi, avvengono anche qui, è ovvio. La differenza sta nel fatto che noi non smettiamo mai di parlarci e confrontarci. Non alziamo mura fra di noi e, nonostante tutto, proseguiamo nel confronto, anche se poi ognuno magari rimane con le proprie convinzioni». E poi ancora; «Un’altra cosa che sappiamo fare bene è non essere d’accordo. Però lavoriamo sulla mediazione e continuiamo a vivere insieme». L’“Oasi della Pace”, Wāħat as-Salām in arabo, Neve Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani. Dalla nostra prospettiva a migliaia di chilometri di distanza appare logico. Evidentemente non lo è, tanto che rappresenta praticamente un unicum. È stato fondato negli anni ’70 da fra’ Bruno Hussar, nato ebreo, cresciuto nell’islamico Egitto e diventato frate domenicano, che ha scelto di costruire un luogo dove fare dialogare le persone di fedi diverse.
Oggi sono circa 300 persone a convivere su questa collina a metà strada fra Gerusalemme e Tel Aviv, che deve il nome alle parole di Isaia (32, 18): «Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo». Una piccola ma coraggiosa sfida sia al potere dei più forti sia alla disperazione dei più deboli, che indica che soltanto nel riconoscimento dell’altro si possono trovare soluzioni di pace.
Nell’ambito del progetto «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace» della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) sono in Italia due donne che vivono nel villaggio. Dorit Alon Shippin è nata in Israele da genitori ebrei israeliani nel 1958. Fa parte della comunità dal 1984. Insieme al marito Howard vi ha cresciuto tre figli. Shireen Najjar è stata la prima bambina araba a nascere nella comunità. Ha frequentato l’asilo e la scuola primaria del villaggio. Dopo aver vissuto a Gerusalemme, con il marito Mustafa ha deciso di tornare ad abitare nell’“Oasi” perché non volevo crescere i nostri figli tra quotidiane violenze e soprusi da parte dell’esercito israeliano».
Vari i loro incontri pubblici in queste settimane, due in particolare organizzati dalla stessa Fcei con i referenti italiani delle associazioni che appoggiano l’esistenza del villaggio. A Milano il 21 gennaio, a esempio, insieme al Forum delle religioni di Milano, Acli Milanesi, Associazione italiana amici di Neve Shalom – Wahat al-Salam e Centro studi Confronti, hanno risposto alle domande del pubblico accorso assai numeroso. Insieme a loro sono intervenuti i pastori Alessandro Spanu, presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Cristina Arcidiacono e Gabriele Arosio che ha anche moderato l’incontro.
L’Oasi non è un eremo isolato, dove il mondo non entra, ma una idea differente di convivenza che si esprime a partire dall’aspetto educativo, centrale per formare nuove generazioni in grado di spezzare il ciclo di violenza. In un Paese dove, ancora, appena l’1 per cento degli studenti dei due popoli condivide il medesimo percorso scolastico, sono presenti scuole di vario grado, dove studenti ebrei e musulmani frequentano le stesse classi, giungendovi anche da paesi vicini. Le lezioni vengono condotte da due insegnanti, tutto si svolge nelle proprie lingue di riferimento, e si impara soprattutto a crescere insieme fin da giovanissimi.
Come ha ricordato lo storico Gadi Luzzatto Voghera in chiusura dell’incontro milanese, «la dinamica dell’educazione è il grande esempio di Neve Shalom – Wahat al Salam. Sentire la narrazione, studiare la narrazione della storia dell’altro. Studiare la Nakba, da parte ebraica, e studiare la Shoah, da parte araba palestinese, è – credo – il modo più significativo per riuscire ad attivare delle dinamiche di dialogo che siano permanenti. E l’educazione è l’unico mezzo che ci permette di guardare con fiducia al futuro, al di là di qualsiasi retorica».
«Una sera – ricorda Dorit Alon Shippin – ero seduta proprio a casa dei genitori di Shireen e ho sentito per la prima volta la narrativa araba sulla nascita dello Stato di Israele. Fu uno shock assoluto, non c’era Internet, noi avevamo ricevuto sempre e solo una narrazione soltanto, di parte. Sono passati 40 anni, oggi ci sono molte organizzazioni rispetto ad allora che lavorano per la mediazione dei conflitti e la costruzione della Pace, eppure la situazione è peggiorata». «Dopo il 7 ottobre – raccontano le due donne – grazie al dialogo ci siamo accorti che le notizie che noi riceviamo sono ancora una volta profondamente differenti. Gli ebrei leggono e ascoltano i propri mezzi di comunicazione che forniscono una narrazione, e gli arabi fanno lo stesso con i loro. I media delle due parti raccontano la loro verità. Come fare a capire quale sia la vera situazione? Continuando a parlare, a informarsi fino alla sfinimento».
Il villaggio ospita anche una “Scuola per la pace” aperto al mondo: un luogo dove i giovani ebrei e arabi imparano a cogliere la complessità del conflitto in corso e avviano percorsi di comprensione reciproca. A tutt’oggi più di 25.000 giovani, tra i 15 e i 18 anni, hanno partecipato ai corsi. Nel villaggio fra’ Bruno ha inoltre fortemente voluto un edificio che poi ha preso il nome di “Casa del silenzio”, il luogo dell’incontro fra religioni, senza spigoli, aperta per le preghiere e le funzioni dei fedeli: cristiani, ebrei, musulmani, di qualunque religione.
«Come diceva mio padre, conclude Shireen Najjar, vivere a Wahat al-Salam – Neve Shalom è come stare in una coppia: quando le cose vanno bene, è facile stare insieme, ma la vera prova si ha durante le difficoltà. Dal 7 ottobre in poi, la nostra comunità sta affrontando un momento estremamente difficile. Questo è il nostro esame come comunità. Ma nessuno se n’è andato».
Convivenza, riconciliazione, parole chiave con il proposito di rispettare tutte le differenze facendo incontrare le diversità perché si conoscano e si diano valore reciprocamente, per non aver più paura l’uno dell’altro: per seminare appunto l’idea della pace.
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