Dieci anni come Kobane | il manifesto

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«Siamo qui per celebrare i dieci anni della liberazione di Kobane dallo Stato islamico. Lo abbiamo sconfitto e se servirà lo sconfiggeremo ancora e ancora». Aya parla con lo sguardo fiero, circondata dalla folla che in questa domenica 26 gennaio sta festeggiando la battaglia che ha cambiato la storia del nord-est della Siria. È curda, ha 55 anni e il capo coperto da un velo colorato. Durante la resistenza della città a pochi chilometri dal confine turco ha perso un figlio e molte persone care. Un’altra figlia è arruolata nelle Ypj, le unità di autodifesa delle donne. «Che tante di noi abbiano combattuto in prima linea contro i miliziani islamisti è di enorme importanza, dopo tutto quello che siamo state costrette a subire».

IN QUESTO STESSO GIORNO del 2015 Ypg e Ypj annunciavano la liberazione della città, qualche ora prima in cima alla collina di Mishtenur era tornata a sventolare la bandiera curda. A quattro mesi dall’inizio dell’occupazione dello Stato islamico, il 16 settembre 2014, Kobane poteva finalmente risorgere. Libera. In mezzo c’erano state settimane di combattimenti strada per strada e bombardamenti della Coalizione internazionale (nata ad agosto dopo il massacro islamista contro gli ezidi a Shengal). Un’inarrestabile resistenza popolare, nonostante l’assedio brutale, la fame e oltre 1.100 persone uccise, aveva trasformato la città in un simbolo, nella Stalingrado di Siria.

A sostenerla anche un movimento globale di solidarietà, che scopriva il Rojava e la rivoluzione ispirata al progetto di confederalismo democratico teorizzato dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e dal suo fondatore Abdullah Öcalan, prigioniero da quasi 26 anni nell’isola turca di Imrali.

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Kobane, con le mani il segno della vittoria – foto di Iacopo Smeriglio

«LA VITTORIA CONTRO L’ISIS significa semplicemente una cosa: libertà. Per noi donne e per noi curdi. Prima ci dovevamo nascondere, grazie alla resistenza di questa città siamo stati conosciuti da tutto il mondo», dice Sawsan. Ha 32 anni e accanto una figlia di 13, Jiyana. «Sono una studentessa e frequento la scuola nella nostra lingua, prima era vietato anche solo parlarla.

Quello che è successo qui è stato importante per il nostro popolo e per tutto il mondo». Da Kobane è partita la marcia delle unità di autodifesa – curde, arabe, assire, turkmene, ezide – riunite sotto le Forze democratiche siriane: mese dopo mese le Sdf hanno strappato territorio allo Stato islamico, che all’apice della sua espansione si era preso un terzo della Siria, per sconfiggerlo definitivamente a Baghuz, il 23 marzo 2019. Il combattente internazionalista Lorenzo Orsetti, «Orso», era caduto su quel fronte appena quattro giorni prima.

Alle 11 la piazza dedicata al comandante Egit è stracolma. In fondo una statua di bronzo su un basamento di marmo scuro ricorda l’uomo che nel 1984 «sparò la prima pallottola del Pkk»: era stato appena annunciato l’inizio della lotta armata in Turchia, dopo il rientro dei combattenti dal Libano dove avevano partecipato alla resistenza contro l’invasione israeliana. Qualcuno ha portato delle bandiere dell’organizzazione, rosse con al centro una stella su sfondo giallo, nonostante l’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria avesse chiesto di non farlo.

A pochi metri dalla statua una grande scritta su un muro dice «Jin, jihan, azadi», «Donna, vita, libertà». Dal tetto del palazzo accanto le asaysh, forze di sicurezza interna della regione, vigilano sulla folla tenendo stretti i kalashnikov. Tutto intorno donne e uomini con le stesse uniformi verdi controllano gli ingressi armi alla mano: la situazione è tranquilla, ma non possono abbassare la guardia. Allungando lo sguardo alle loro spalle si scorgono le case in macerie, mai ricostruite perché restino a memoria, museo a cielo aperto.

In mezzo alla piazza, sul pavimento grigio, una marea umana di mille colori, donne, uomini, anziani e bambini, intere famiglie, tanti in abiti tradizionali, curdi e arabi, rispondono con una voce sola, di tuono, agli slogan che lancia dal palco Farhan Haj Issa, co-presidente del cantone dell’Eufrate: «Lunga vita a Kobane, lunga vita alle Sdf». L’emozione si coglie dalla fermezza del tono di Haj Issa, che fa tremare l’aria e vibrare la piazza come un solo corpo.

La statua di Egit e i combattenti sui tetti
La statua di Egit e i combattenti sui tetti

«VIVA LA RESISTENZA alla diga», ripetono al microfono. È quella di Tishreen, sul fiume Eufrate, 76 chilometri più a sud: un’infrastruttura vitale per i rifornimenti idrici ed energetici in tutto il Nord-est. «Ormai sono costretto ad acquistare l’acqua dalle cisterne e ci sono frequenti interruzioni di elettricità. Questo rende tutto più difficile», racconta Mohammed, 35 anni, che vive a Kobane e fa il fabbro. Da settimane i civili vanno a centinaia a presidiare la diga, a difenderla con i loro corpi. Già si contano diciotto uccisi: i droni turchi la bombardano anche se l’ultimo vero fronte aperto in Siria è dieci chilometri più a ovest. Lì le Sdf stanno combattendo il coacervo di milizie islamiste riunite nel sedicente Esercito nazionale siriano (Sna), sostenuto da Ankara. Con la diga in mano turca, la città sarebbe di nuovo accerchiata da tutti i lati. Se cade Tishreen, cade Kobane.

Intanto dal palco interviene una delegazione internazionale. «Chiederemo a Macron di togliere il Pkk dalle liste del terrorismo internazionale ed eliminare il segreto di stato sull’omicidio di tre dirigenti politiche curde a Parigi, Sakine Cangiz, Fidan Dogan e Leila Sailemez», dice la deputata francese Danielle Simonnett. Con il parlamentare Thomas Portes (Lfi) e tre consiglieri comunali di Parigi rappresentano tutti i partiti del Nuovo fronte popolare francese. Per l’Italia ci sono esponenti delle istituzioni locali: Amedeo Ciaccheri, presidente dell’VIII municipio della capitale, e Roberto Eufemia, consigliere della Città metropolitana di Roma, entrambi di Sinistra civica ecologista. Ciaccheri al microfono torna alle origini: «Il legame dell’Italia con il Kurdistan è lungo quasi tre decenni, da quando Öcalan giunse a Roma» in cerca di un rifugio che le autorità gli rifiutarono. Poi parte Bella Ciao, cantata in italiano dal palco e in curdo dalla piazza. È tempo di ballare. Dopo la guerra c’è sempre voglia di ballare: a cerchi concentrici, mano nella mano, la danza si mescola agli abbracci.

UN PO’ PIÙ IN LÀ ASIA, che ha 30 anni e indossa la divisa verde asaysh, chiede alla comunità internazionale e ai paesi europei di garantire che il cambio di regime a Damasco tuteli i diritti di donne e minoranze. «Conosciamo il passato di Al Jolani, è fatto di stupri e violenze. Sappiamo cosa intende davvero fare con le donne: escluderci dalla vita politica, costringerci a coprire il capo e vestire di nero. Non faremo nessun passo indietro. Non gli permetteremo di venire qui e governarci», afferma con sguardo implacabile. Poi indica i cerchi bianchi che sono apparsi in cielo: «Contro Kobane e tutta la regione autonoma ci sono tante minacce. Come quell’aereo che vola sulle nostre teste. Vuole spargere paura, soprattutto tra i bambini. Ma noi qui di paura non ne abbiamo più».

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Per le strade della città, gli stencil del volto di Öcalan sono impressi quasi su ogni muro. Allontanandosi di qualche chilometro dal centro, campi coltivati e ulivi tingono di verde una terra che poco più a est è un’enorme piana desertica. Tra gli uliveti sorge il cimitero dei martiri della resistenza: un grande edificio a vetri con in cima una stella rossa e una distesa ordinata di lapidi di marmo chiaro che sembra non finire mai. A colpire è la giovane età della maggior parte dei combattenti caduti, molti di loro nati alla fine degli anni Novanta. Alle iscrizioni in curdo e arabo si mescolano tombe senza nome né volto: lì riposano i corpi dei caduti in battaglia mai identificati perché irriconoscibili, recuperati al fronte o nelle fosse comuni e i combattenti con la famiglia in Turchia che va protetta dalla persecuzione delle autorità.

ALCUNE SEPOLTURE non hanno ancora la struttura di marmo che custodisce le bare: sono quelle dei caduti sul fronte a ovest di Tishreen. «Queste persone sono morte nell’ultimo mese», dice una ragazza indicando l’area non pavimentata, dove le foto dei martiri sono circondate da pietre e fiori. Se ne contano 132. Un po’ più in là tre uomini sono al lavoro per spianare un altro pezzo di cimitero. «Deve sempre esserci uno spazio libero – ci spiegano – La resistenza non è ancora finita».



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