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Che ne sarà degli Stati Uniti? #finsubito prestito immediato



Capitol Hill a Washington

Voto equilibrato e conteso. Ma al di là del risultato, per la cui ufficialità bisognerà attendere, la divisione in due dell’elettorato e quindi del Paese è evidente e sarà un problema per chi si insedierà alla Casa Bianca. Che ne sarà dell’America? Ecco il giudizio degli studiosi che cercano di guardare nella sfera di cristallo e indicare che cosa aspettarsi dal dopo-elezioni.

«Nei programmi dei due candidati sull’economia- dice Mario Macis, docente alla Johns Hopkins University- ci sono differenze notevoli, ma forse proprio per la vicinanza nei sondaggi, emergono alcune somiglianze. Prima su tutte la guerra commerciale alla Cina e l’aumento significativo del deficit, un tema di cui né Kamala Harris né Donald Trump sembrano preoccuparsi. Tuttavia, per entrambi, la realizzazione della maggior parte delle promesse dipenderà dalla composizione del Congresso, ovvero se il partito del futuro presidente avrà o meno il controllo di Camera dei rappresentanti e Senato, che si rinnovano anch’essi, totalmente la prima, in parte il secondo. In ogni caso, il programma di Harris si può riassumere nella sua visione di promuovere un’ economia delle opportunità, volta a garantire una crescita economica inclusiva e accessibile a tutti gli americani. Quello di Trump si rifà ai suoi slogan più conosciuti Make America Great Again e Take America Back, concentrandosi sulla protezione del Paese sia da nemici interni (come tasse e regolamentazioni eccessive) sia da minacce esterne, principalmente gli immigrati e la Cina, attraverso dazi elevati e politiche commerciali aggressive».

Sul rapporto Usa-Europa si concentra Francesco Talò, ambasciatore ed ex rappresentante dell’Italia nella Nato: «Comunque vada a finire dovremo fare squadra con il vincitore della competizione. L’Europa dovrà impegnarsi a lavorare insieme al leader della nazione che, per quanto in difficoltà, rimane la guida del nostro sistema economico e politico di libertà e democrazia. D’altra parte (e dovremo farlo capire al nuovo inquilino della Casa Bianca) anche l’America dovrà fare attenzione a tenersi stretti gli alleati europei, esortandoli a fare di più, ma anche ascoltandoli e aiutandoli negli sforzi di rafforzare l’unità e la competitività del vecchio continente. Questo vale per chiunque prevarrà, ma soprattutto nel caso di vittoria di Trump. Egli cercherà di approcciare gli europei uno ad uno, preferendo un confronto bilaterale a quello con l’Ue, che ci rappresenta in materia commerciale, e dentro la Nato, che è il nostro sistema comune di sicurezza. Noi europei dovremo mantenerci saldi e cercare di rafforzare la nostra unità e quindi il potere negoziale nei confronti di un interlocutore che comunque rimarrà il nostro indispensabile alleato».

La super-polarizzazione dell’elettorato è la principale caratteristica di queste elezioni, secondo il Cise, Centro studi elettorali presso l’università di Firenze: «La polarizzazione è maturata negli anni, Trump ha contribuito ad un processo già esistente, perché ha acuito il solco tra gli elettorati dei due partiti spingendo i democratici a spostarsi più a sinistra. Dal 2012 i democratici hanno perso elettori moderati e conservatori, passati dal 49 al 33%, mentre le varie componenti liberal sono cresciute dal 51 al 67%. Quindi gli elettori americani stanno diventando sempre più polarizzati, distanti anni luce sulle questioni più importanti, pieni di pregiudizi gli uni verso gli altri. I repubblicani credono che il 38% dei democratici appartenga alla comunità Lgbt (lo è solo il 6%) e che il 36% sia ateo o agnostico (dato vero: 9%). Viceversa, i democratici credono che il 44% dei repubblicani sia composto da cittadini anziani (che pesano in realtà per circa la metà) e che guadagnino più di 250.000 dollari all’anno (si tratta di appena il 2%). In un contesto del genere anche prendere decisioni al Congresso diventa difficile, vista la poca o nulla propensione al compromesso».

La conferma che la profonda divisione della società americana è una ferita non rimarginabile arriva da Federico Fabbrini, docente alla Dublin City University ed ex docente alla Princeton Univerity: «Gli Usa sono un Paese profondamente diviso. Nonostante Trump abbia gestito la sua presidenza dal 2016 al 2020 in modo confuso ed erratico (in particolare nel rispondere alla pandemia), nonostante egli sia stato condannato penalmente da un tribunale dello stato di New York per crimini di frode fiscale, e nonostante egli abbia apertamente messo in discussione durante la campagna elettorale i principi della democrazia e dello stato di diritto, quasi un americano su due (tra quelli che votano) è sostanzialmente pronto a sostenerlo. La polarizzazione politica ha ormai diviso il Paese in due Americhe, sempre più incapaci di comunicare tra loro, e ridotto dunque i margini di compromesso necessari al buon funzionamento di una democrazia. Comunque vadano a finire queste elezioni, gli Usa resteranno un Paese diviso, Trump ha riplasmato il partito Repubblicano, e le sue posizioni politiche sono ormai largamente condivise da rappresentati eletti nei legislativi federali e degli Stati. Infatti, attorno a Trump si è formata una coalizione di interessi socio-economici – che bizzarramente accomuna lavoratori di aree povere e de-industrializzate del Paese con ultra-ricchi imprenditori delle tecnologie di frontiera, tipo Elon Musk – i quali si identificano nelle sue politiche ostili, allo stesso tempo, alla globalizzazione, alla regolazione e alla tassazione».

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Infine, anche negli Stati Uniti le promesse elettorali vanno prese con le molle e dopo le elezioni può accadere che passata la festa, gabbato lo santo. Conclude Gianni La Bella, docente di Storia contemporanea all’università di Modena-Reggio Emilia: «Harris può vantare il programma Central America Forward, che ha avuto un impatto abbastanza buono, con la creazione di almeno 50-70mila posti di lavoro in Paesi come Honduras e Guatemala, tradizionali luoghi di partenza delle carovane dei migranti. Mentre Trump ha insistito su libero mercato e mano dura nei confronti dei migranti irregolari e di coloro che premono al confine messicano. In campagna elettorale, ha promesso che caccerà dagli Stati Uniti tutti gli indocumentados. Un’operazione che appare impossibile, dato che si tratta di dieci milioni di persone, tra cui 4 milioni di messicani e 2 di centroamericani. Le dichiarazioni roboanti fanno parte del personaggio, ma è probabile che in molti casi restino tali, e questo vale anche per la lotta al narcotraffico e per le relazioni con quelli che chiamerei i convitati di pietra, cioè Cuba, Venezuela e Nicaragua».



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