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Parla ai media vaticani il co-direttore di “On Our Radar”, intervenuto a un seminario internazionale sulla comunicazione organizzato all’Urbaniana per il Giubileo. Riflette sugli sforzi dell’organizzazione per un giornalismo di base, “dal di dentro”, realmente immersivo nei contesti di comunità spesso ai margini. “Stiamo diventando molto polarizzati e divisi, credo che le storie abbiano il potere di ricucire tutto”
Deborah Castellano Lubov – Città del Vaticano
Le storie sono una “moneta” potente e dobbiamo cambiare il modo in cui le raccontiamo, dice Chris Walter, co-direttore di “On Our Radar”, un’organizzazione britannica che, composta da un gruppo specializzato di giornalisti, registi, narratori digitali e operatori comunitari, lavora attraverso partnership per creare reti di reporter comunitari e far emergere storie di gruppi inascoltati in tutto il mondo. A Vatican Media, a margine della conferenza organizzata alla Pontificia Università Urbaniana dal Dicastero per la Comunicazione in collaborazione con il Dicastero per l’Evangelizzazione in occasione del Giubileo della Comunicazione, riflette su alcuni temi che hanno a che fare con il suo impegno che gli sono valsi sei premi internazionali per i media.
Dai documentari sulla schiavitù in Ghana ai film coprodotti con i lavoratori nel settore dell’abbigliamento in Bangladesh; dalle reti di reporter che vivono l’esperienza dei senzatetto e della demenza nel Regno Unito a coloro che hanno seguito le elezioni nel Delta del Niger e ai citizen reporter in prima linea nella crisi dell’Ebola in Sierra Leone, “On Our Radar” lavora con le persone locali per raccontare le loro storie con le loro parole e calati nel loro ordinario. Walter condivide la sua storia e quella di On Our Radar e offre consigli su come diventare “narratori di speranza”.
Cosa la porta qui, in Vaticano? Da questa conferenza globale, quale storia è venuto a raccontare?
Sono qui per raccontare a tutti la nostra missione di lavorare con le comunità storicamente emarginate o ignorate o non ascoltate, e per dare un contributo nel cercare di cambiare il modo in cui raccontiamo le storie con questi gruppi e amplifichiamo le loro voci.
On Our Radar: può parlarci un po’ di come è stata fondata e delle attività che svolgete?
On Our Radar, nella sua essenza, è stato fondato per combattere quella forma di “giornalismo dall’alto verso il basso” che va avanti da centinaia di anni, in cui gli editori ai vertici sono spesso uomini anziani che decidono quali storie, come, dove mostrarle, i formati. Ciò che facciamo noi è lavorare con le comunità che sono state escluse da questi ‘standard’, comunità che stanno vivendo alcune delle sfide più urgenti in tutto il mondo, e lavorare con loro per sostenerle, per raccontare le storie che vogliono loro raccontare, con il loro linguaggio e i loro tempi. Questa è la nostra missione sociale. Vogliamo cambiare il modo in cui le persone raccontano le storie e vogliamo farlo con i gruppi emarginati, raccontando storie con e non per le comunità. È un modo superato di fare giornalismo è quello basato su schemi che prevedono il presentarsi in una comunità per mezz’ora, parlare rapidamente con qualcuno, scattare qualche foto e poi sparire per tornare alla redazione di Londra o New York. Noi vogliamo agire in modo diverso. Crediamo che le comunità siano esperte delle loro esperienze e che quindi debbano avere il tempo e lo spazio per raccontare le storie che vogliono raccontare. Quando lo facciamo e portiamo nei media voci nuove e diverse, possiamo cambiare i media in meglio e portare alla ribalta prospettive inascoltate. Le storie raccontate dalle comunità con le loro stesse parole sono più crude, più intime, più distinte e hanno il potere di provocare un reale cambiamento sociale.
C’è una particolare storia che ha trovato più commovente tra quelle da voi raccontate?
L’anno scorso abbiamo lavorato con un gruppo di persone, a Manchester, nel nord dell’Inghilterra, che avevano vissuto l’esperienza della mancanza di una casa e che avevano vissuto in un alloggio inadeguato. Li abbiamo riuniti in un workshop. Lì hanno iniziato a condividere le loro esperienze, quello che hanno passato nella loro vita, quello che li frustrava, soprattutto il modo in cui i media nazionali raccontano la storia dei senzatetto. Volevano fare qualcosa al riguardo. Hanno quindi avuto l’idea di creare un documentario web interattivo intitolato “Il labirinto di Manchester”, perché sentivano che un labirinto rappresentava il loro percorso abitativo, che comprendeva il finire in un vicolo cieco… le continue barriere… il tornare al punto di partenza… il cercare di navigare in un sistema abitativo che non è adatto allo scopo. Noi abbiamo contribuito a dare vita insieme a loro al labirinto. Quando si entra nel labirinto, il pubblico si trova di fronte a una decisione. In particolare, ci si trova a dover decidere, in ogni punto, tra due opzioni. Spenderete le vostre ultime 10 sterline per una tenda o cercherete di entrare in un ostello? Dove dormirete stanotte? Si tratta di decisioni che tutti i membri del gruppo sperimentano nella loro vita.
Molto interattivo…
Mette davvero il pubblico nei panni di chi è senza casa. Si vedono animazioni, filmati, audio e si ascoltano le persone stesse sulle diverse cose che sono accadute nella loro vita e che hanno portato al momento di crisi. Se si conosce la storia di qualcuno, si entra meglio in contatto con lui e si crea empatia. È quello che cerchiamo di fare. Cerchiamo di raccontare una storia che includa il contesto, la storia umana, l’universalità, l’amore, la famiglia e l’amicizia, perché sono cose con cui tutti abbiamo a che fare.
Papa Francesco ha invitato i comunicatori a essere narratori, narratori di speranza. Quali consigli offre lei?
Penso che le storie siano una moneta straordinaria. È il modo in cui sperimentiamo e comprendiamo il mondo. Personalmente, se mi trovo di fronte a un grande rapporto pieno di dati e statistiche, riesco ad apprezzarlo, ma può darsi anche che non lo capisco. Se invece parlo con qualcuno che mi racconta della sua vita, di quello che ha passato, mi arriva davvero alla mente. Peraltro, non stanno solo vivendo le sfide, ma hanno le soluzioni, perché sanno cosa renderebbe le loro vite migliori.
Se li ascoltiamo e usiamo queste storie come moneta di scambio, possiamo costruire un mondo più inclusivo e pieno di speranza…
In questo momento nel mondo la democrazia è in crisi. Abbiamo una catastrofe climatica. C’è una crisi dell’immigrazione. Stiamo diventando molto polarizzati e divisi. Credo che le storie abbiano il potere di ricucire tutto questo. Ma per farlo, dobbiamo cambiare il modo in cui le raccontiamo. Non le stiamo ancora ascoltando.
Come si può essere forti e andare avanti anche se a volte ci sono barriere o forze che mirano a ostacolare i vostri progetti?
Credo che si tratti di dare tempo al processo e lasciare che la comunità arrivi alla storia che vuole raccontare con le proprie parole, che saranno genuine e autentiche. A volte si tratta di formare le comunità al giornalismo di base, alle tecniche di ripresa o all’audio. Ci vuole tempo per costruire la loro fiducia. Dobbiamo investire tempo e capire che siamo tutti diversi, abbiamo prospettive diverse, ma che la storia di ognuno è comunque preziosa e uguale. Nessuna storia è migliore di un’altra. Può essere diversa per me, può essere diversa per te, ma è la sua verità. Dobbiamo rispettarla. È il modo in cui reagiamo, ci parliamo e affrontiamo la questione che renderà il nostro mondo un posto migliore.
Questa conferenza l’ha arricchita?
Lo è stata davvero arricchente. Tutti continuano a parlare della parola “speranza”, che può sembrare banale e sdolcinata, ma se perdiamo la speranza, cosa ci resta? Per me è molto interessante ascoltare persone di tutto il mondo che parlano dei loro diversi campi professionali, delle loro storie, dei diversi mondi in cui lavorano, ma con un filo conduttore comune. Sento spesso la parola “sinodalità” e, come persona che non si era mai occupata di questo termine prima d’ora, è stato davvero sorprendente per me sapere che questa parola deriva dal latino “camminare con”. Che si tratti di documentari trasmessi, di podcast, di scrittori, di organizzazioni caritatevoli e di professionisti della comunicazione, l’idea di essere con le comunità e di stare con loro, affrontando alcune delle sfide più difficili del nostro tempo, mi è rimasta davvero molto impressa.
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