Appalto di servizi e riqualificazione come somministrazione di manodopera


Sempre più frequentemente gli operatori economici cercano forza lavoro flessibile a un costo minore rispetto al rapporto di lavoro subordinato; si parla in generale di esternalizzazione o outsourcing, meccanismo attraverso il quale vengono affidati a soggetti esterni una o più fasi del ciclo produttivo, prima gestite in via diretta. Lo strumento giuridico tradizionalmente utilizzato per gestire tale esigenza è il contratto di appalto caratterizzato dalla prevalenza della forza lavoro sugli altri fattori produttivi (labour intensive), da uno scarso impiego di beni strumentali, e spesso dall’esecuzione del servizio all’interno dell’azienda del committente (c.d. appalto endoaziendale).

Il frequente ricorso all’appalto di servizi, quale modalità di organizzazione del lavoro, ha favorito l’emergere di alcune criticità. L’impiego di tale contratto, infatti, talvolta dà luogo a censure, tanto nella dimensione giuslavoristica, quanto nella dimensione tributaria, con ciò che ne consegue in termini di sanzioni, sia amministrative sia penali.

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Più in particolare, quanto alle conseguenze dell’improprio ricorso al contratto di appalto di servizi, è possibile osservare che la relativa condotta può dar luogo, sotto il profilo del diritto del lavoro, all’inquadramento del rapporto contrattuale alle dipendenze del datore di lavoro c.d. “sostanziale”, mentre, sotto il profilo tributario, non di rado si assiste alla contestazione di illeciti fiscali – per lo più in termini di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti – in ragione della ritenuta inconsistenza giuridica del rapporto contrattuale stipulato.

Contratto di appalto e somministrazione di manodopera

Il ricorso sempre più frequente al fenomeno dell’esternalizzazione è dovuto ai benefici che genera per le imprese, tra cui si possono segnalare: l’ottimizzazione dei costi aziendali; la possibilità di affidare lo svolgimento di servizi strategici a soggetti altamente specializzati oppure il trasferimento dei rischi derivanti dall’attività esternalizzata su un soggetto terzo. Tuttavia, la legittimità dell’appalto è sottoposta a vincoli stringenti finalizzati a escludere la sussistenza di un’interposizione illecita di manodopera. L’individuazione di una linea di demarcazione tra i 2 istituti non rileva però soltanto ai fini del diritto del lavoro, ma per quanto di nostro interesse, anche ai fini fiscali, dal momento che, nel caso di una prestazione di servizi, la configurazione della somministrazione di manodopera in luogo del contratto di appalto comporta l’indetraibilità dell’Iva e l’indeducibilità dell’Irap.

In linea generale e in base a quanto stabilito dall’articolo 1655, cod. civ., con il contratto di appalto l’appaltatore assume, con organizzazione dei mezzi e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio dietro corrispettivo in denaro.

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Nel contratto di somministrazione di lavoro, regolato invece nel Capo IV del D.Lgs. 81/2015, un’agenzia autorizzata e iscritta all’apposito albo presso il Ministero del lavoro si obbliga a mettere a disposizione di un utilizzatore dei lavoratori suoi dipendenti, affinché svolgano la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore medesimo.

La somministrazione può essere esercitata solo nei casi e nelle forme stabiliti dall’articolo 30 e ss., D.Lgs. 81/2015 e si differenzia dall’appalto di servizi perché quest’ultimo è connotato dall’organizzazione dei mezzi e dall’assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore.

Questi tratti distintivi sono stati più volte richiamati dalla giurisprudenza; si consideri ad esempio quanto si legge nell’ordinanza n. 12551/2020 della Corte di Cassazione in cui si sottolinea che un appalto di opere o servizi può essere considerato genuino quanto “all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest’ultimo, l’intuitus personae nella scelta del personale”. La linea di confine tra le 2 fattispecie è dunque individuata anche da un punto di vista pratico nella presenza o meno, nel contratto di appalto, dell’organizzazione dei mezzi necessari e dall’assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore.

In sostanza, l’appaltatore deve:

  • provvedere all’organizzazione dei mezzi necessari; detta circostanza può essere apprezzata diversamente, a seconda delle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, ma richiede necessariamente l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
  • assumere il rischio d’impresa.

L’appalto si caratterizza per un “fare” (concretizzantesi nel potere organizzativo e direttivo) da parte dell’appaltatore secondo lo schema dell’obbligazione di risultato con conseguente assunzione del rischio d’impresa, mentre la somministrazione di personale consiste in un “dare” dal momento che l’appaltatore mette a disposizione il proprio personale, secondo lo schema dell’obbligazione di mezzi.

La sussistenza dell’appalto è identificata secondo una approfondita ricostruzione effettuata in più occasioni dalla Corte di Cassazione (si veda fra le altre l’ordinanza n. 18808/2017), dalla combinazione dell’indice dell’assunzione del rischio d’impresa e di quello dell’eterodirezione, con rilievo preminente attribuito a quest’ultimo elemento. Tali requisiti possono però presentare delle caratteristiche diverse a seconda della tipologia di appalto, infatti, negli appalti c.d. pesanti, ossia quelli che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non più sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi; negli appalti c.d. “leggeri” in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti (in termini, Cassazione n. 21413/2019).

In particolare, è stato precisato che quello che conta per poter considerare genuino, cioè conforme alle previsioni di cui al suddetto intervento normativo, un appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è il fatto che: il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore” costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore (Cassazione n. 15557/2019). Inoltre, il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dall’articolo 29, D.Lgs. 276/2003 può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell’opera o del servizio, anche solo nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nel contratto (Cassazione n. 30694/2018). Insomma, all’appaltatore, per vedere riconosciuto il suo ruolo e per veder riconosciuta la sussistenza del contratto di appalto, si richiede non solo di organizzare, ma anche di dirigere i suoi dipendenti, utilizzandoli in prima persona (Cassazione n. 31720/2018). Se, invece, l’appaltatore si limita a mettere a disposizione del committente mere prestazioni lavorative di propri dipendenti che in qualche modo possono considerarsi subordinati al committente (ad esempio perché da quest’ultimo ricevono indicazioni relativamente all’organizzazione dei turni di lavoro o sulle mansioni che sono chiamati a svolgere) vi potrebbe essere il rischio di vedersi contestare la somministrazione di manodopera.

Essendo ormai pacificamente ammessa la legittimità dei contratti labour intensive, va però sottolineata l’incertezza legata alla possibilità di individuare un limite massimo entro cui il committente può ingerirsi nella gestione del personale dell’appaltatore, senza sconfinare nella somministrazione di manodopera. Certo è che l’appaltatore deve essere in possesso di una reale organizzazione che gli consenta il raggiungimento, con contestuale assunzione del rischio di impresa, di un risultato produttivo autonomo. Tuttavia, appare ragionevole ritenere, supportati in questa conclusione anche dalle pronunce giurisprudenziali che sono state richiamate, che tale valutazione debba essere compiuta caso per caso, essendo influenzata dalle caratteristiche della prestazione resa e dal settore produttivo di riferimento.

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L’elemento dell’eterodirezione, pur ritenuto prevalente, non è di per sé sufficiente a delineare una distinzione netta tra il contratto di appalto e l’intermediazione di manodopera; va, infatti, dimostrata anche l’assunzione del rischio d’impresa in capo all’appaltatore.

Per individuare tale elemento tradizionalmente si fa riferimento alla tipologia e natura del compenso spettante all’appaltatore. Elementi sintomatici di un appalto illecito potrebbero essere ad esempio: il corrispettivo irrisorio e il calcolo dello stesso sulla base della retribuzione oraria dei dipendenti o sulla base del costo di spese assicurative e contributive del personale.

Un approccio eccessivamente formalistico legato esclusivamente alla remunerazione oraria rischia però di essere fuorviante dal momento che negli appalti di servizi c.d. labour intensive, i corrispettivi possono essere legittimamente pattuiti in diversi modi: a corpo, a pezzo, a metro, a chilo, a ora, ect..

Inoltre, esaurire il parametro del rischio d’impresa alla remunerazione oraria appare oltremodo riduttivo; infatti, anche se il prezzo viene pattuito a ora lavorata, l’impresa, per evitare il rischio connesso allo svolgimento di una qualsiasi attività produttiva (ossia quello di non coprire i costi), deve comunque avere la certezza di riuscire a “vendere” un numero di ore sufficiente, tale per cui, i ricavi realizzati possano superare i propri costi. Se l’impresa non lavora, non incassa, e quindi non ottiene quanto le serve per pagare i costi dei dipendenti che nel frattempo ha assunto e gli altri costi di gestione, che comunque deve sostenere.

Dunque, la pattuizione del prezzo sulla base delle ore lavorate non riesce di per sé a sollevare l’imprenditore dal rischio di impresa; inoltre, un approccio così riduttivo esclude in maniera aprioristica tutti gli altri fattori che in qualche modo possono incidere sull’attività produttiva in sé, come a esempio i rischi per inadempimenti contrattuali e/o eventuali danni, che invece rappresentano una parte essenziale di una qualsiasi attività imprenditoriale.

 

Gli effetti fiscali della distinzione fra appalto di servizi e somministrazione di manodopera

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Ciò premesso, si ritiene opportuno dar conto dei principali risvolti tributari sostanziali derivanti dal ritenuto improprio ricorso al contratto di appalto di servizi, ancorché le relative prestazioni risultino effettivamente svolte e le relative imposte regolarmente versate.

In tali casi, tradizionalmente gli uffici fiscali contestano la detrazione dell’Iva e la deducibilità del costo relativo. Inoltre, va segnalata la tendenza a far sfociare tali contestazioni in ambito penale tributario, contestando l’emissione di fatture giuridicamente inesistenti ai sensi dell’articolo 2, D.Lgs. 74/2000, tramite la ricostruzione della fattispecie alla stregua di operazioni soggettivamente inesistenti, ovvero, in termini di operazioni oggettivamente inesistenti.

Nella prospettiva tributaria, tali differenti ricostruzioni danno luogo a conseguenze diverse fra loro.

Difatti, come noto, la contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, presupponendo l’effettiva realizzazione del negozio, dà luogo, in capo al committente, alla sola indetraibilità dell’Iva relativa ai corrispettivi (effettivamente pagati), sebbene in relazione a operazioni (ritenute) poste in essere da altro soggetto, diverso da quello che ha emesso la fattura (Cassazione n. 2446/2013, n. 13800/2014 e n. 11020/2022). Diversamente, la contestazione di operazioni oggettivamente inesistenti, ancorché limitatamente alla sola dimensione giuridica, nella misura in cui nega l’effettiva realizzazione dell’operazione, dà luogo, in capo all’appaltante, non solo all’indetraibilità dell’Iva relativamente ai corrispettivi ma, anche, all’indeducibilità, ai fini delle imposte sui redditi (e dell’Irap), dei relativi componenti reddituali, stante il ritenuto difetto del requisito della certezza quanto all’esistenza della spesa (Cassazione n. 45114/2022).

Più in particolare, secondo quest’ultima ricostruzione, il contratto di somministrazione di manodopera irregolare, in quanto “mascherato” da contratto di appalto di servizi, non potrebbe che essere ritenuto giuridicamente inesistente, potendo il lavoratore impiegato sulla base del contratto vietato agire in giudizio per vedersi riconosciuto il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo (il committente), con la conseguenza che – sotto il profilo tributario – verrebbero così a mancare i requisiti di “certezza”, “determinatezza”, ovvero “determinabilità” dei costi e da ciò, in definitiva, deriverebbe l’irrilevanza degli stessi costi ai fini delle imposte sui redditi (e dell’Irap).

In altri termini, la descritta riqualificazione del rapporto negoziale, in sede penale-tributaria attuata facendo leva sui criteri di valutazione del contratto di appalto propri della disciplina giuslavoristica, consentirebbe di ritenere oggettivamente inesistente – ancorché solamente dal punto di vista giuridico – la prestazione documentata a cui le parti abbiano in precedenza dato effettivo seguito.

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I possibili rimedi alla riqualificazione dell’appalto di servizi operata dall’Amministrazione finanziaria

In relazione alla indeducibilità dei corrispettivi ai fini delle imposte sui redditi, è possibile osservare che, sebbene il contratto di appalto di servizi possa essere dichiarato inesistente in una dimensione giuridica (rectius: giuslavoristica), ciò non significa che, in una dimensione storico-naturalistica, i costi relativi al contratto di somministrazione di manodopera debbano essere considerati relativi a operazioni in tutto o in parte (oggettivamente, ovvero soggettivamente) inesistenti; talché, per quanto in questa sede più interessa, ovvero sotto il profilo tributario, ciò non implica che i medesimi costi – ai fini delle imposte sui redditi – debbano essere considerati indeducibili perché non inerenti, indeterminati, ovvero indeterminabili. Difatti, quanto a quest’ultimo aspetto, tali costi potranno essere determinati sulla base delle previsioni contrattuali applicabili, specialmente ove i corrispettivi siano stati effettivamente versati, sebbene in favore dell’appaltatore.

Peraltro, è da escludere che le parti del contratto di appalto di servizi – specialmente in una prospettiva tributaria – volessero porre in essere un contratto civilisticamente inesistente (o anche solo inefficace) che, quindi, come tale, avrebbe determinato l’indeducibilità dei relativi corrispettivi che, al contrario, tralasciando il caso in cui il contratto non abbia avuto effettiva esecuzione, si assume essere stati effettivamente corrisposti.

Sicché, la riqualificazione del contratto di appalto di servizi in contratto di somministrazione di manodopera, pregiudiziale per incardinare il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore della manodopera (ovvero l’appaltante che ha già sostenuto i corrispettivi delle prestazioni dedotte in tale contratto), non sembra impedire di giungere all’esatta determinazione degli oneri relativi alle prestazioni di lavoro svolte, con la conseguenza che tali oneri, sotto il profilo tributario, non possono che risultare inerenti (Cassazione n. 450/2018 e n. 1290/2020), nonché caratterizzati da quegli ulteriori requisiti di certezza e precisione necessari al riconoscimento della deducibilità in sede tributaria.

D’altro canto, poiché l’articolo 109, comma 4, D.P.R. 917/1986, ammette espressamente la deducibilità del c.d. “costi neri” (purché risultanti da elementi certi e precisi, nonché correlati a ricavi imponibili), allora risulterebbe irragionevole che i costi (inerenti, certi, determinati e afferenti a ricavi imponibili) fossero considerati indeducibili solo perché derivanti da operazioni ritenute giuridicamente inesistenti (nella prospettiva del diritto del lavoro).

Infatti, in giurisprudenza, è ormai acclarato che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’articolo 14, comma 4-bis, L. 537/1993, nella formulazione introdotta dall’articolo 8, comma 1, D.L. 16/2012, convertito in L. 44/2012, sono deducibili i costi e le spese delle operazioni inesistenti, per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi e spese siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ovvero siano relativi a beni o servizi che risultino direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo accertato dall’Autorità giudiziaria ordinaria (A.G.O.).

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In altri termini, se anche i costi derivanti da reato risultano deducibili ai fini delle imposte sui redditi, a fortiori, i costi – effettivamente sostenuti – a fronte dei corrispettivi di cui al contratto di appalto di servizi (ancorché illegittimo sotto il profilo giuslavoristico), non dovrebbero essere considerati indeducibili una volta dimostrata l’inerenza, la competenza, la certezza e la determinatezza o la determinabilità dell’entità degli stessi.

Opinare diversamente significherebbe consentire una tassazione – ai fini delle imposte dirette – di un reddito lordo, dal quale si vorrebbe escludere il concorso alla relativa determinazione – di costi inerenti, certi e determinati/determinabili, derivanti dalle prestazioni di lavoro svolte dal personale dipendente in tale attività d’impresa impiegato, in contrasto con il principio di capacità contributiva.

In relazione al tema relativo alla contestazione dell’indetraibilità dell’Iva sul presupposto della (ritenuta) soggettiva inesistenza dell’appaltatore, ovvero della oggettiva inesistenza giuridica del contratto di appalto di servizi, e ciò anche a prescindere dalla questione della proporzionalità della complessiva reazione dell’ordinamento nell’ipotesi in cui non sia configurabile un effettivo danno erariale, è possibile svolgere le seguenti brevi considerazioni in tema di onere della prova.

In primo luogo, nelle ipotesi in esame, ove non si discute dell’effettività delle operazioni e dell’inerenza delle stesse, ma, piuttosto, della provenienza (solo formale) della fattura da parte di soggetto passivo ai fini Iva del tutto reale (e non fittizio) che – solo in una dimensione giuridica – non avrebbe svolto la relativa prestazione, invece, posta in essere da altro soggetto, effettivo fornitore, non si può far a meno di osservare che il diniego della detrazione ha l’effetto di alterare il normale funzionamento del tributo, a sua volta fondato sul principio di neutralità dell’imposta.

In ogni caso, la richiesta del pagamento del tributo (supposto indetraibile), non può che fondarsi su di una prova che l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di fornire (in questi termini, anche di recente, Corte Giustizia UE, causa C-537/22 dell’11 gennaio 2024, Global Ink Trade Kft), superando così la prospettazione dal contribuente fornita sulla base della fattura emessa e, ciò, tanto più oggi, anche sulla base della previsione di cui al comma 5-bis, dell’articolo 7, D.Lgs. 546/1992. Pertanto, se da una parte è vero che la mera regolarità formale della fattura e delle scritture non è sufficiente per il contribuente a dimostrare l’esistenza delle operazioni, è altrettanto vero che la regolarità della fattura lascia presumere la verità di quanto in essa rappresentato e, dunque, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva che, peraltro, rappresenta un principio fondamentale del sistema comune dell’Iva. Sicché, in presenza di regolari fatture, l’Amministrazione finanziaria deve provare il difetto delle condizioni oggettive e soggettive per la detrazione, ovvero l’inesistenza soggettiva (ovvero oggettiva) dell’operazione e la malafede del contribuente che sapeva, o avrebbe dovuto sapere, di aver preso parte a un’operazione fraudolenta. Al riguardo, se pure la prova della fittizietà del prestatore del servizio (appaltatore) può anche essere data attraverso il ricorso a presunzioni semplici, valorizzando, ad esempio, l’inesistenza di una struttura operativa adeguata, occorre altresì che sia data la prova dell’elemento soggettivo, ovvero della consapevolezza, in capo al committente il servizio (appaltante), della fittizietà del fornitore.

A tal fine, non pare sufficiente affermare che il committente, quanto meno, avrebbe dovuto sapere che l’operazione posta in essere poteva costituire una frode, specie allorquando il prestatore abbia comunque provveduto al versamento dell’Iva.

Difatti, criteri di ragionevolezza e proporzionalità rispetto alle circostanze del caso concreto privano di rilevanza elementi (talvolta valorizzati in giurisprudenza) quali, ad esempio:

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  1. l’insussistenza di una concreta organizzazione;
  2. l’assenza di una adeguata dotazione di personale;
  3. l’irregolarità della contabilità e dei pagamenti anche quanto alle loro inusuali modalità;
  4. la presenza di benefici dalla rivendita dei servizi;
  5. la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali.

D’altra parte, come pure osservato in giurisprudenza, se si ritenessero sufficienti anche pochi indizi, non gravi, non precisi e non concordanti, perché possa integrarsi la presunzione semplice di conoscenza o conoscibilità della frode, gli operatori sarebbero eccessivamente timorosi e potrebbero essere indotti a non rischiare, decidendo di non concludere molti affari, con grave nocumento per i traffici commerciali e quindi per l’economia in generale (così Cassazione n. 27745/2021).

Sicché il criterio di giudizio fondato sul presupposto “non poteva non sapere” appare inservibile allo scopo prima richiamato. Difatti, anche un operatore particolarmente accorto non avrebbe potuto avvedersi (beninteso solamente in una dimensione giuridica) della soggettiva inesistenza dell’appaltatore che, nei casi che in questa sede rilevano, non avrebbe potuto svolgere alcuna attività senza la necessaria dotazione di mezzi e, soprattutto, di personale.

Sotto quest’ultimo profilo, va osservato che la Corte di Giustizia UE afferma che il grado di consapevolezza e di diligenza del soggetto deve essere apprezzato assumendo come criterio guida quello della ragionevolezza, attraverso una valutazione delle circostanze oggettive presenti nella fattispecie concreta e che, in ogni caso, non si può esigere che il soggetto coinvolto ponga in essere controlli di natura fiscale e non fiscale sulla controparte dell’operazione.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso.



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