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Aristotele la considerava una degenerazione dell’aristocrazia: il governo di pochi, contraddistinto dalla ricchezza invece che dalla virtù. Con la stessa accezione il termine “oligarchia” è stato utilizzato negli ultimi decenni in Occidente per classificare gli imprenditori russi fedeli a Vladimir Putin.
Sembra incredibile, ma adesso il termine viene usato anche per gli Stati Uniti.
Copyright di Joe Biden, che nel suo ultimo discorso prima di lasciare la Casa Bianca ha detto: «In America sta prendendo forma un’oligarchia che può contare su ricchezza, potere e influenza, un’oligarchia che insidia la nostra democrazia».
Atto inedito
Pochi giorni dopo, l’oligarchia si è presentata al grande evento, l’inaugurazione di Trump. Il fondatore di Meta, Mark Zuckerberg; l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook; quello di Alphabet e Google, Sundar Pichai; il creatore di Amazon, Jeff Bezos; quello di Tesla e SpaceX, Elon Musk: durante il giuramento, erano tutti in prima fila ad ascoltare il discorso del presidente.
Un fatto inedito.
Non che gli imprenditori americani in passato abbiano evitato di ingraziarsi il commander in chief, Biden compreso. In questo caso la dimostrazione è stata però diretta, plastica. Non solo finanziamenti alla campagna elettorale, ma un atto di fedeltà simbolico: la partecipazione al discorso d’inaugurazione, seduti addirittura davanti ai ministri del governo.
Tipi di oligarchie
Il parallelismo creato da Biden per mettere sullo stesso piano Trump e Putin si basa su un dato di fatto. L’obiettivo comune di oligarchi russi e americani (ma non solo) è la battaglia contro leggi e istituzioni pubbliche, in particolare quelle che colpiscono i capitali e mettono a rischio la posizione di forza delle loro aziende. In estrema sintesi, poche tasse e nessun meccanismo antitrust.
Ci sono però anche tante differenze. La principale riguarda il modo in cui questi personaggi sono diventati ricchi. L’ascesa degli oligarchi russi combacia con le privatizzazioni degli anni Novanta, quando un gruppo di uomini compra a prezzi di saldo le più importanti aziende statali. Nascono così le fortune di quasi tutti gli attuali paperoni.
Per farsi un’idea basta citarne alcuni: Oleg Deripaska, fondatore di una delle più grandi aziende produttrici di alluminio al mondo (Rusal); Andrey Melnichenko, magnate dell’industria dei fertilizzanti (Eurochem) e del carbone (Suek); Vladimir Potanin, produttore di nichel e palladio con la Norilsk Nickel; Alexey Mordashov, numero uno del colosso siderurgico Severstal.
Il potere dei russi deriva quindi dal controllo di aziende che si occupano soprattutto di estrarre e trasformare materie prime, oppure esercitano il controllo su settori come quello della finanza o delle telecomunicazioni.
La forza degli americani, o almeno di quelli accorsi al discorso inaugurale di Trump, dipende invece da aziende tecnologiche che loro stessi hanno quasi sempre creato da zero.
Putin e Trump
Da una parte abbiamo dunque imprenditori, che hanno avuto successo grazie alla loro creatività, dall’altra uomini d’affari il cui merito è stato soprattutto quello di consolidare il potere ricevuto dalla politica.
Lineare? Fino a un certo punto.
Anche tra i cosiddetti “tech bros” c’è infatti chi è diventato grande grazie ai soldi dello Stato. Due su tutti. Le società di Musk negli ultimi dieci anni hanno ottenuto negli Usa contratti pubblici per 15,4 miliardi di dollari, mentre la Palantir del suo amico Peter Thiel ha ricevuto investimenti dalla Cia e beneficia di appalti statali per centinaia di milioni di dollari.
Altra differenza riguarda i settori in cui operano gli oligarchi. Putin punta soprattutto sul controllo delle materie prime, da cui l’economia russa è fortemente dipendente, mentre Trump ha la testa rivolta quasi esclusivamente (per ora) al dominio sulla comunicazione e sui dati.
Le leve dei “tech bros”
Ottenere la fedeltà congiunta di Zuckerberg, Musk, Bezos, Cook e Pichai significa avere dalla propria parte gli strumenti di comunicazione più usati in Occidente: il principale motore di ricerca al mondo (Google), il più potente fornitore di servizi cloud (Amazon), i social network più popolari e influenti (Facebook, Instagram e X), la regina delle piattaforme video (YouTube), l’app di messaggistica più utilizzata al mondo (WhatsApp), il telefono preferito negli Usa (iPhone) e la più grande costellazione di satelliti capaci di fornire connessione internet (SpaceX).
Tutto questo tralasciando un sacco di altri asset, dal Washington Post di Bezos all’intelligenza artificiale di Alphabet, tanto per citarne alcuni.
Il punto è che gli imprenditori corsi ad applaudire Trump possono in teoria garantirgli il consenso popolare attraverso le loro aziende (vedi le nuove politiche sul fact-checking annunciate da Zuckerberg). Gli oligarchi di Putin, invece, appartengono ancora al mondo manifatturiero, spesso alle concessioni minerarie rilasciate dal presidente.
Gara di potere
In una gara tra chi ha più potere sui propri oligarchi, Putin gode dunque ancora di un netto vantaggio su Trump, perché il primo può sempre decidere di azzoppare un’azienda non rinnovandole un permesso, mentre questo discorso è più difficile da applicare a chi lavora con dati e software.
L’analogia più evidente? A parte quella sugli obiettivi (meno tasse e meno regole, come detto), sono le personalità dei due presidenti a essere molto simili. Uomini che amano comandare in modo plateale, bisognosi del riconoscimento pubblico del loro potere.
Non si spiega altrimenti il fatto che, a differenza del passato, i rappresentanti di alcune delle più importanti aziende americane questa volta abbiano sentito la necessità di presenziare all’insediamento del presidente.
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