«Se il posto all’asilo nido non si trova o costa troppo le donne restano a casa. Il welfare? Sono i nonni, per chi ce li ha»

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È arrivato quel momento dell’anno. L’apertura dei bandi per ottenere un posto in un asilo nido pubblico, a un prezzo sostenibile, preferibilmente nel proprio quartiere. Una specie di click day per vincere alla lotteria, considerando che – ultimi dati Istat alla mano – in Italia per ogni dieci bambini tra 0 e 2 anni solo tre riusciranno a usufruire dei servizi per l’infanzia. E gli altri sette? Cosa succede alle famiglie dei meno fortunati e soprattutto alle madri, lo ha spiegato Sarah Malnerich, che insieme a Francesca Fiore è creatrice del progetto Mammadimerda.


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Nato sui social, arrivato nelle librerie e nei teatri, parla direttamente a donne e uomini con l’obiettivo di rovesciare gli stereotipi sulla maternità e il femminile passando per temi più che pratici. Gli asili nido e i servizi per l’infanzia sono uno di questi. «Leggo di donne che si scontrano con la difficoltà di trovare un posto o di sostenere i costi e scelgono di stare a casa dal lavoro o chiedere il part-time: se devo pagare 700 euro al mese, tanto vale licenziarmi», il quadro che dipinge l’attivista attraverso i racconti della community su Instagram. Una soluzione paradossale, ma che sembra essere di fatto incentivata dalle politiche in atto: «Una donna che dà le dimissioni entro il primo anno di vita del figlio ha diritto alla Naspi (fino a 24 mesi n.d.r): è come se il “non welfare” suggerisse che è meglio restare a casa anziché lavorare».


Ci ritroviamo a parlare di donne e non di genitori. Perché?


«Il problema ha radici culturali profonde e si lega alla narrazione tradizionale sulla maternità. Si dà per scontato che, quando nasce un bambino, debba essere la madre a rimanere a casa ad occuparsi di lui. Una mentalità  rafforzata anche dalle scelte legislative. La disparità è evidente nei congedi di maternità, cinque mesi, e paternità, 10 giorni. Ovviamente esistono motivazioni fisiologiche, ma il sistema attuale non offre una reale possibilità di scelta né agli uomini né alle donne. Che sia la madre a restare a casa è un obbligo imposto dalla mancanza di servizi adeguati e di congedi più equi».


Quali sono le carenze più evidenti?


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«La principale difficoltà riguarda la disponibilità dei posti: i dati Istat vengono poco considerati nelle politiche pubbliche e l’accesso ai servizi è fortemente limitato dalle graduatorie.

Un altro ostacolo significativo è il costo della retta, che può arrivare anche a 700 euro al mese in città come Milano. Inoltre, non esiste un’uniformità a livello nazionale nei criteri di accesso, nelle riduzioni delle rette e nelle esenzioni. Questo è particolarmente grave considerando che, dal 2017, un decreto stabilisce che i servizi per l’infanzia sono equiparati a un diritto della persona per ogni bambina e bambino».

Su 10 bambini in Italia c’è posto solo per tre. E gli altri 7?


«Al momento l’Italia non raggiunge il 33% di copertura richiesto dall’Europa, siamo al 28%. Un dato comunque migliorato rispetto al 2021, ma solo perché nascono meno bambini. La risposta ce la forniscono proprio Istat e Inl, con l’aumento di dimissioni volontarie e richieste di part-time da parte di donne con figli nei primi 3 anni di vita (45mila nel 2022, ultimi dati dispnibili n.d.r)». 


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«Ne parliamo dagli anni ’70 come se la questione dei figli fosse prettamente femminile. Bisogna parlare di condivisione. Allo stato attuale, fare figli per una donna che lavora è una penalizzazione a vita, con ricadute anche a livello pensionistico». 


Quali sono le modifiche più urgenti al sistema del welfare?


«Il welfare in Italia sono i nonni, per chi ce li ha. Bisognerebbe partire dall’equiparazione del congedo come negli altri paesi europei. Così che quella della donna possa anche scegliere di tornare subito a lavorare per contribuire all’economia familiare o semplicemente perché le piace. A beneficiarne sarebbe l’intera collettività».

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In che modo?


«Lo ha dimostrato il premio Nobel James Heckman: asili nido e servizi di qualità incidono a lunga gittata sulla formazione della persona che li ha frequentati, oltre che sull’economia della comunità. Secondo i suoi studi, per ogni dollaro investito per l’infanzia ne torneranno indietro sette, e non solo nel momento in cui l’investimento viene fatto, ma per ogni anno che vivrà la persona che ha frequentato il nido. Eppure siamo ancora qua».




Ultimo aggiornamento: Giovedì 23 Gennaio 2025, 11:24



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