Morte di un gettonista – Capitolo Quarto

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Procedura celere

 


Ed ecco che ritrovo la signora Rebecca in infermeria. Mi siedo di fronte a lei e la osservo: ci guardiamo negli occhi.
Rebecca è una donna ancora piacente, nonostante un’età apparente di circa sessant’anni. Ha i capelli scuri, mossi e ben pettinati. Uno sguardo dolce con un sorriso complice. Gli occhi scuri e tondi le donano un aspetto sereno, come una donna paga della vita.
«Rebecca, ma è sempre così? Nessuna chiamata dal pronto soccorso?»
«No!» risponde.
«Mah… io vado a leggere in camera. Se succede qualcosa, fammi sapere.»
«Ci conti, dottore!»
Raggiungo la camera, mi sfilo il camice, mi sdraio sul letto e…
Lungo la strada che collega Tobiti a Lecole, sfreccio sulla mia moto. Il buio è totale e il faro, appannato, illumina a malapena cinque metri davanti a me. Non incrocio nessuno, non so neanche dove sto andando, non c’è nessuno che mi aspetta. Nell’aria sento volteggiare un suono indefinibile, una nenia che mi riporta indietro, molto indietro. Mi raggiunge ora, lungo il viale di campagna, mio nonno: «Pasquale, ma dove vaiiii?»
Mi sveglio di soprassalto, stavo sognando. Bussano alla porta. Apro: è Rebecca.
«Dottore, venga, la accompagno in sala parto. La signora è arrivata già con 4 centimetri.»
Mi bagno il viso, inforco gli occhiali, prendo il fonendoscopio per cingermi il collo, una mascherina ancora nella sua busta dal comodino, e i guanti che mi porge Rebecca.
Solo pochi metri e siamo in sala parto. Due ostetriche in tuta amaranto, un’infermiera in tuta bianca, e un’altra donna, che subito intuisco essere la ginecologa, stanno parlando a voce bassa.
«Buon pomeriggio,» esclamo.
Si girano verso di me. «Sono il collega Pasquale Traini, il pediatra gettonista.»
Un accenno di saluto. La ginecologa si avvicina alla partoriente e dice:
«Scendi dal lettino, Mafalda. Il parto si è bloccato. Scendi e mettiti carponi.»
Sul pavimento c’è un telo verde appoggiato su una coperta di lana pesante. Mafalda segue le indicazioni.
«Ascoltami: alla prossima contrazione, mentre ti tengo il capo sollevato, le ostetriche saranno dietro di te. Tu dovrai spingere forte, molto forte, come se dovessi fare la cacca. Forte!»
Faccio due passi indietro. Mi giro, ma la ginecologa mi chiama:
«Collega, non hai mai visto un parto in posizione carponi? È molto più sicuro per il neonato e molto meno doloroso per la mamma.»
Non rispondo. Le ostetriche sorridono, mentre Rebecca alza le sopracciglia in segno di complicità.
Mafalda inizia a urlare. Irene, la collega ginecologa, la incita:
«Forza, forza, forte, forte!»
Dal canale del parto si affaccia la testa del bambino. Poi, con un movimento esperto, le ostetriche liberano le spalle, lo prendono per i fianchi prima che cada sul telo. Con un urlo liberatorio di Mafalda, la sala parto si riempie del primo forte gemito di Giulio: sono le 17:10.
Mafalda viene aiutata a risalire sul lettino ostetrico per il secondamento, mentre l’infermiera avvolge Giulio in un panno e lo appoggia carponi sull’addome della mamma per lo skin-to-skin.
«Venga, dottore,» mi dice Rebecca.
Osservo attentamente Giulio: il colorito è roseo, i riflessi arcaici presenti e validi, il pianto forte. I testicoli sono in sede. Con il fonendoscopio controllo i toni cardiaci: validi, ritmici, pause libere, frequenza 130 al minuto.
«Dottore, come sta il bambino?» mi chiede Mafalda.
«Bene, signora, è un bel bambino sano. Auguri!»
Rebecca sorride e sussurra:
«Dottore, se vuole può andare. Al resto ci penso io. Tra dieci minuti facciamo la cartella clinica.»
Saluto tutti e mi allontano. Mi guardo intorno, ma di Mustafà non c’è traccia. Raggiungo l’ostetrica all’ingresso.
«Signora, ha visto il giovane collega libanese?»
«No, non l’ho visto. Ma dove è andato?»
«Non lo so. Ma lui fa così: sparisce per tre o quattro ore e poi ricompare.»
«Va bene,» rispondo.
Mi risiedo alla scrivania. Dopo dieci minuti arriva Rebecca con Giulio. Lo posiziona amorevolmente nell’incubatore per la profilassi oculare e per la malattia emorragica. Poi compiliamo insieme la cartella clinica.
Sono le 19. Torno in camera, prendo una bottiglia d’acqua frizzante e un panino con prosciutto e formaggio. Lancio un ultimo sguardo a Giulio, che dorme pacifico. Lo rivisito: respiro regolare, nessuna tachipnea transitoria.
«Buona serata, Rebecca,» dico. Torno in camera. Apro il mio vecchio Pantarotto di Neonatologia, ma dopo pochi minuti cado in un sonno profondo.
Un rumore mi sveglia: Rebecca urla dietro la porta mentre la percuote con i pugni.
«Dottore, dottore, dottore! Apra!»
Spalanco la porta. Rebecca mi trascina nel Nido. Mustafà giace sulla sua branda. Gli occhi strabuzzano dalle orbite, la lingua fuori dalla bocca, la postura innaturale. Il corpo è coperto da un lago di sangue che gocciola fino al pavimento.
Mi avvicino, sento un pugno nello stomaco, ma trovo il coraggio di osservare. Il taglio sul collo è profondo: va da un orecchio all’altro, recidendo perfino la trachea.



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