Il prezzo delle auto alle stelle, il nuovo aumenta del 43% in 5 anni. E gli italiani si rifugiano nel mercato dell’usato: +8% e boom listini anche lì

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Cara auto, quanto mi costi. Un pensiero ricorrente nella testa degli italiani, da qualche anno a questa parte. Precisamente da dopo la pandemia, quando la spirale dei prezzi ha cominciato a crescere senza soluzione di continuità, assumendo sempre più le sembianze di un tornado. Nel 2019, ultima annata pre-covid, il costo medio di un’autovettura in Italia era di 21mila euro. Già nel 2023 quella soglia superava ampiamente quota 29 mila euro, dopo stagioni di aumenti indiscriminati. L’ultimo dato disponibile, secondo le stime del Centro Studi Fleet&Mobility, mostra come nel 2024 sia stata superata la soglia dei 30mila euro. Più 43% circa in soli cinque anni. Non bene, anche considerando che lo stipendio medio netto nel nostro Paese non è certo cresciuto allo stesso ritmo e che lo scorso anno si è fermato a 24mila euro.

Ciò nonostante gli italiani hanno continuato a comprare, compatibilmente con le loro possibilità. Non inganni infatti quello 0,5% in meno di vendite nel rendiconto di fine 2024, che in molti hanno letto come stagnazione. In realtà, l’esborso complessivo – privati più imprese – per l’acquisto di autovetture lo scorso anno è stata di ben 47 miliardi di euro. Tradotto: non abbiamo mai speso così tanto per un’auto nuova. La differenza l’hanno fatta i listini più alti, tenendo lontani dalle concessionarie i consumatori con potere d’acquisto limitato. Che si sono orientati sul mercato di seconda (e terza) mano, non a caso cresciuto dell’8,3% lo scorso anno, con ben 3,15 milioni di passaggi di proprietà: un volume doppio rispetto alle immatricolazioni di vetture nuove. Anche qui, la differenza l’ha fatta il prezzo: quello medio dell’usato si è attestato intorno ai 22mila euro, lievitando di 6mila euro rispetto ai circa 16.000 nel 2019. Un livello impensabile fino a qualche anno fa, ma comunque l’unica alternativa oggi.

Tentando una sintesi, possiamo dire che la mobilità è sempre meno popolare e sta diventando progressivamente una questione da ricchi, visto anche lo spostamento verso segmenti sempre più alti. Ma perché i prezzi delle auto sono aumentati così vorticosamente? Guerre, difficoltà di approvvigionamento nella componentistica e congiuntura economica internazionale hanno fatto la loro parte, insieme alla lievitazione dei costi per l’energia e quelli per le materie prime. Anche l’introduzione obbligatoria voluta dall’Unione europea dei cosiddetti ADAS, i dispositivi di sicurezza, ha inciso sul prezzo finale delle auto che fisiologicamente non sono più quelle di cinque anni fa. Tutti oneri aggiuntivi per i costruttori, che tuttavia non sono esenti da responsabilità.

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Prendiamo la cosiddetta crisi dei microchip, ad esempio. Per anni i grandi gruppi automobilistici hanno lamentato la scarsa disponibilità di semiconduttori, che ha inciso negativamente sulla produzione, facendo di conseguenza alzare i listini. In realtà, i chip non mancavano di certo: nel 2021, ad esempio, ne fu messa in commercio la cifra record di 1,15 trilioni per un giro d’affari di 556 miliardi di dollari, oltre il 26% in più rispetto al 2020. Il problema, semmai, fu che l’industria automotive non credeva in una ripresa veloce del mercato dopo la pandemia e diminuì i propri ordini. Nel momento in cui la domanda delle case automobilistiche tornò a crescere, gran parte della produzione di microchip era già stata riallocata altrove tra computer, tablet, smartphone e altri strumenti tecnologici.

Non restò altra scelta dunque, dopo aver sbagliato valutazioni, che mettersi in fila e aspettare il proprio turno. Ma nel frattempo i prezzi crescevano. Si parlava prima, nondimeno, di migrazione verso segmenti più alti. Anche in questo caso sono evidenti le conseguenze delle scelte fatte da alcuni costruttori (non tutti per fortuna). Che in gran parte hanno deciso di abbandonare i comparti più “popolari”, come quello delle utilitarie, che in Italia è preponderante, perché considerati meno remunerativi. Una politica di ricerca dei margini, aumentando i prezzi, piuttosto che dei volumi. Ma se una cosa costa tanto, si vende meno: è la prima regola dell’economia.

Regola che può essere applicata anche al caso delle auto elettriche, ancora fuori dalla portata della maggior parte dei consumatori nonostante massicce iniezioni di liquidità da parte dei vari governi europei, sotto forma di incentivi all’acquisto. “Si può portare il cavallo alla fontana, ma non lo si può convincere a bere”, diceva John Keynes, anche se in questo caso le perplessità dei consumatori riguardano anche altri fattori come l’autonomia e le infrastrutture per la ricarica. La domanda, a questo punto, è legittima: i prezzi continueranno a salire anche nel 2025? E se sì, fino a che punto? Gli analisti sono abbastanza concordi nel prevedere che la strategia “più margini meno volumi” non continuerà all’infinito, anche perché le fabbriche non possono scendere sotto una certa soglia di produttività per essere efficienti.

Allo stesso tempo, con listini così alti la pressione sui concessionari rischia di diventare insostenibile, con la domanda che comincia a latitare. Considerazioni che porterebbero a una riduzione dei prezzi. Ma c’è un’incognita, che si chiama Unione Europea: le multe (pesanti) per chi sfora i limiti, divenuti più strngenti, sulle emissioni entrati in vigore quest’anno potrebbero spingere ancora più in alto il costo delle vetture “tradizionali”, quelle che i compratori finora hanno dimostrato di volere, per scongiurarne l’acquisto in favore di elettriche e ibride plug-in (ferme al 13% del mercato continentale), già costose di loro. Si è calcolato infatti che, per ogni auto a motorizzazione elettrica invenduta, i costruttori dovranno rinunciare a vendere quattro endotermiche per ottemperare alle norme europee. I dubbi, dunque, restano.



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