Giro del mondo intorno al rock

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La storia del rock ha anche un insolito collegamento con un ordine massonico. I Knights of Pythias, (I Cavalieri di Finzia) nacquero poco dopo la metà del XIX secolo a Washington per iniziativa di un insegnante scolastico, compositore e attore chiamato Justus Henry Rathbone, che, ispirandosi al mito greco incentrato sull’amicizia fraterna di Damone e Finzia, fondò una società segreta con scopi mutualistici che ebbe un grandissimo successo tanto da radunare negli anni nei suoi ranghi anche presidenti come Franklin Delano Roosevelt e giudici della corte suprema. Al culmine dell’ambizione i Knights of Pythias costruirono nel 1927 una sede newyorkese tra Broadway e Columbus Avenue. Un tempio faraonico non solo nelle ambizioni, ma anche nello stile che rileggeva in linguaggi art déco il gusto «neo-egizio» tanto caro a sette segrete e associazioni iniziatiche. L’importanza dell’ordine e il rilievo dei confratelli non salvarono però, all’inizio degli anni Quaranta, dai debiti che costrinsero i Cavalieri a subaffittare alcuni locali della sontuosa sede all’etichetta discografica Decca. E proprio qui, tra bassorilievi che richiamavano i ritratti di Ramses II di Abu Simbel o colonne adornate da profili assiri, il 12 aprile 1954 Bill Haley e i suoi Comets incisero la loro versione di Rock around the Clock, un disco che cambierà la storia. C’è qualcosa di paradossale in una sede di una società legata da un vincolo di segretezza da cui esce qualcosa destinato a una popolarità globale, ma se non altro il successo del primo grande singolo dell’era del rock fu forse la cosa più autenticamente faraonica partorita in quei saloni ispirati alla maestosità dell’antico Egitto.

ISPIRAZIONI
La musica è fatta sì di note, ma i luoghi da cui trae ispirazione, in cui nasce o in cui viene riprodotta o interpretata, consentono a una forma d’arte di espandersi, di vivere e proiettarsi in un’altra dimensione. I luoghi della musica danno spesso senso alla musica stessa. «Sarebbe infatti impossibile ascoltare un brano di Bruce Springsteen o di Johnny Cash senza immergersi nelle sensazioni e nei personaggi delle immense pianure americane, godersi una sinfonia degli Yes senza evocare i sublimi paesaggi di Roger Dean, o sottrarre ai Beach Boys lo spensierato sciabordio dell’Oceano Pacifico e della sua magica estate infinita». È quello che scrive John N. Martin nel suo I muri del suono. Viaggio nei luoghi che hanno cambiato il rock (Tsunami edizioni, collana le Tormente), un pellegrinaggio musicale che parte proprio dal fantomatico tempio neo-egizio del West Side newyorkese e tocca in più di 20 tappe alcuni luoghi emblematici, molti leggendari altri dimenticati, che hanno scandito quasi ottant’anni di musica a partire dall’irresistibile twelve bar blues di Bill Haley e le sue Comete.
«Ho voluto raccontare i luoghi che hanno cambiato il rock, quelli in cui il rock è entrato in un modo e uscito in un altro – spiega John N. Martin, autore che ha diviso la sua vita e le sue passioni musicali tra Inghilterra (Londra) e Italia (Milano) -. Io nasco come architetto e urbanista e in altri lavori ho esplorato le contaminazioni della musica in settori molto diversi quali i movimenti politici, sociali fino alla gastronomia con il libro Gastrocknomia. Qui sono ritornato un po’ alle mie origini, cercando però di raccontare attraverso i luoghi l’evoluzione del rock fino al digitale. Per ogni trasformazione che ho reputato importante ho trovato un punto di riferimento. Quindi dal rock’n’roll delle origini da cui è partito tutto alla nascita della techno, dalla follia della scena giapponese al Parco Lambro che è stata un po’ la nostra follia. Un giro del mondo per sensazioni. Perché il rock non è solo una musica è una cultura contemporanea in grado di assumere tutti i caratteri dei vari luoghi in cui si è manifestata. Il rock della Berlino degli anni Ottanta non è il rock progressivo italiano, né tanto meno la tropicália brasiliana degli anni Sessanta». Martin, che è anche curatore del blog dedicato al prog italiano John’s Classic Rock (classikrock.blogspot.com), ricorda così anche i luoghi di culto del nostro paese, non solo Parco Lambro sede degli happening «Re Nudo» negli anni Settanta, ma anche altre location milanesi come il Palaghiaccio che ospitò i primi vagiti del rock tricolore o il Magia Music Meeting che dava voce e volume ai fermenti culturali che si distanziavano dagli stereotipi della «Milano da bere». «Non è mai solo musica. C’è la politica, ci sono le lotte sociali. La Grande Ballroom di Detroit fu la sede delle Pantere Bianche e aveva come resident band un gruppo impegnato come gli MC5. Parco Lambro voleva proletarizzare la musica e fu a suo modo un’anticamera del punk». «Ricordare i luoghi – prosegue Martin – vuol dire anche celebrare le persone che hanno portato avanti progetti e idee partendo da zero. Hanno fondato locali o realtà che sono entrate nella leggenda. Come Ronan O’Rahilly che si inventò Radio Caroline, emittente clandestina off shore che io ascoltavo da ragazzo e che fece conoscere agli inglesi il rock che loro stessi facevano. Oppure come Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten che da un piccolo negozio di Berlino Ovest, l’Eisengrau, ha cambiato il modo di concepire un’arte, una cultura, una musica. I muri del suono sono sì quelli degli aerei supersonici o quelli che voleva costruire Phil Spector quando produceva le sue canzoni, ma sono anche mura di difesa di una cultura, baluardi sacri a protezione della musica».

UNA BUSSOLA
Le narrazioni della geografia del rock sono molteplici e affascinanti. Perché nel rock non tutte le strade portano a Roma. È infatti difficile identificare una vera capitale. Ma la bussola punta inevitabilmente verso il mondo anglo-americano. In Atlante Rock: Viaggio nei luoghi della musica, edito da Hoepli per la prima volta nel 2016 e più volte ristampato, il critico musicale Ezio Guaitamacchi ha provato a tracciare degli itinerari di viaggio in diversi luoghi simbolo tra Stati Uniti e Inghilterra. Il punto di partenza è stata inevitabilmente la Highway 61 che costeggia il fiume Mississippi. È la «Great River Road», una strada lunga più di duemila chilometri che collega New Orleans al confine settentrionale degli Stati Uniti con il Canada, ma che idealmente segna nella sua stessa estensione un percorso evolutivo fondamentale per la storia della musica. L’area del delta del Mississippi non solo era stata la culla del jazz, ma aveva dato origine al blues e a una generazione di musicisti che poi, trasferendosi verso nord con le grandi migrazioni degli afroamericani verso le industrie di Chicago e Detroit, aveva contaminato e arricchito le scene artistiche locali. Il blues aveva incontrato la tradizione, di origine europea, del country, si era elettrificato e aveva generato qualcosa che usciva dai confini ristretti delle comunità agricole del sud per diventare il suono delle metropoli e conquistare un pubblico sempre più benestante e sempre più bianco. Un piccolo centro come Clarksdale, a un’ora e mezza di macchina a sud di Memphis fu per il blues quello che Firenze fu per l’arte rinascimentale. Oggi è una cittadina da meno di ventimila abitanti che come molte aree di quella regione ha perso una quota significativa della propria popolazione. Sorge in una delle zone più povere degli Stati Uniti ed è in parte in rovina, ma qui sono nati Eddie Boyd, Jackie Brenston, Sam Cooke, Son House, Ike Turner, e qui hanno vissuto Robert Johnson e Howlin’ Wolf. Il Delta Blues Museum nato alla fine degli anni Settanta preserva la memoria di questa scena. Dal 2001 al suo interno ospita una baracca in legno che è l’esatto opposto della tracotanza del tempio massonico newyorkese dove risuonò il primo rock’n’roll, ma che racchiude una storia anche più importante. Questa capanna sorgeva in origine ai bordi di una piantagione di cotone a pochi chilometri da Clarksdale, di proprietà della famiglia di un ex generale confederato. Qui viveva un agricoltore e musicista chiamato McKinley Morganfield che nel 1941 tra quelle assi di legno incise per la prima volta con la sua chitarra alcune canzoni blues per l’etnomusicologo Alan Lomax. Due anni dopo Morganfield decise di puntare tutto sulla musica e andò a Chicago a cercare fortuna e divenne noto come Muddy Waters. Ma se l’Atlante rock parte dalle piantagioni di cotone, uno dei punti di approdo è senza dubbio l’Inghilterra dove la lezione dei bluesmen fu recepita da tanti giovanissimi inglesi negli anni Sessanta e dove il titolo di una canzone di Muddy Waters divenne il nome di una delle più grandi rock band di sempre. A Londra forse oggi richiamano più turisti le strisce pedonali di Abbey Road che il British Museum, ma ci si può commuovere di più in un piccolo pub-ristorante in 1 Kew Road nel quartiere di Richmond. Qui sorgeva un club chiamato Crawdaddy in cui, il 14 aprile 1963, i Rolling Stones, la band che aveva preso il nome dal bluesman del Mississippi, si esibirono davanti a un pubblico composto, tra l’altro, dai Beatles. «Finito il concerto – ricorda Guaitamacchi – Brian Jones li invitò nell’appartamento di Chelsea in 102 Edith Grove che divideva con Mick Jagger e Keith Richards: era una scusa per ascoltare dischi e parlare di musica. Anni dopo i Beatles raccontarono di essere rimasti disgustati dallo stato in cui versava la casa».

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IL RIPOSO DEGLI IDOLI
In Rock Tombstones. Pellegrinaggi tra i luoghi sacri del rock (ed. Tsunami) il giornalista e scrittore milanese Luca Fassina ha voluto invece distanziarsi da itinerari più turistici, alla ricerca di posti dove riposano gli idoli musicali o dove questi sono ricordati dai fan. Se è vero che si crea un legame affettivo fra l’artista e il proprio pubblico è altresì vero che questo legame non si interrompe con la scomparsa dell’artista e quindi le tombe o i luoghi di morte delle rockstar sono meta di autentici pellegrinaggi, animati, al di là di quello che si possa pensare, più da vera devozione che da macabro cinismo. Ed è proprio questo che ispira la guida di Fassina che richiama sia luoghi di sepoltura molto noti, come la frequentatissima tomba di Jim Morrison al cimitero parigino Père-Lachaise o quella di Elvis nella sua reggia di Graceland a Memphis, sia quelli meno conosciuti. Ian Curtis è per esempio sepolto a Macclesfield a una trentina di chilometri a sud di Manchester, in una tomba quasi anonima se non fosse per l’incisione «Love will tear us apart». Dolores O’Riordan dei Cranberries riposa nella tomba di famiglia nel piccolo paese irlandese di Ballybricken nella contea di Limerick. Johnny Ramone e Dee Dee Ramone, fratelli solo sul palco (si chiamavano in realtà John Cummings e Douglas Colvin), sono ai margini di uno stesso viale in un cimitero in Santa Monica Boulevard a Los Angeles. Per chi ha fatto spargere le proprie ceneri, i luoghi del ricordo sono spesso legati agli ultimi momenti di vita. John Lennon viene commemorato a Central Park, vicino a dove fu ucciso. Marc Bolan ha un monumento a Londra, accanto all’albero dove si schiantò la macchina di cui era passeggero. Mentre per Sid Vicious leggenda vuole che sua madre Anne abbia versato le sue ceneri sulla tomba di Nancy Spungen al cimitero ebraico di Bensalem in Pennsylvania, violando il veto dei genitori di Nancy che lo hanno sempre ritenuto l’unico colpevole della morte della figlia.

SUI SOCIAL
Un’altra geografia del rock è raccontata, questa volta attraverso i social, dal fotografo e documentarista americano Steve Birnbaum autore del progetto, visibile su Instagram, @thebandwashere. «Credo che il modo migliore per descrivere quello che faccio sia che prendo fotografie di band e musicisti che sono state scattate nel passato e le riporto nella loro posizione precisa nel presente per ricreare la fotografia originale», ha spiegato Birnbaum. Nella sua gallery si possono vedere fotogrammi ormai iconici di artisti come Bruce Springsteen, Kurt Cobain, David Byrne, Doors, Madonna, Red Hot Chili Peppers che sembrano rivivere oggi nei posti dove quelle immagini furono scattate. Anche un marciapiede o una fermata del metrò possono diventare luoghi della memoria del rock, se sono stati immortalati in copertine o in video musicali che sono nel nostro immaginario collettivo. Per Birnbaum, che risiede a New York e produce anche servizi fotografici e video per testate giornalistiche e grandi aziende, quello che era solo un hobby oggi è diventato quasi un lavoro a tempo pieno, visto anche il successo del suo progetto. A volte ritrovare la location di un’immagine richiede una perizia quasi investigativa. È il caso proprio di una fotografia di Kurt Cobain, sorpreso, in una vecchia istantanea, in una cucina della sua casa di Olympia, nello stato di Washington. «Sapevo – ha raccontato Birnbaum in un’intervista a Muse (musebyclios.com) – che il vecchio appartamento che Cobain condivideva con l’allora fidanzata Tracy Marander era disponibile per l’affitto su Airbnb. Ero a Seattle e ho deciso di contattare la proprietaria. Era aperto e lei è stata così gentile da permettermi di accedervi per scattare le mie fotografie. Non avrebbe potuto essere più accomodante e io sono stato felice di ricambiare e di farle un po’ di pubblicità». Non sempre la ricerca è semplice: «Alcune sono sicuramente più difficili di altre. Le immagini che hanno chiaramente un cartello stradale o che sono ampiamente riconoscibili mi fanno sentire come se non mi fossi impegnato molto nella ricerca. Per questo motivo, spesso sfido me stesso, trascorrendo ore, giorni, mesi con una foto, cercando di trovarne la posizione. Google Maps è una benedizione, soprattutto quando cerco di scoprire l’aspetto dei luoghi anni fa». Scordatevi dunque Abbey Road, provate a ritrovare, come ha fatto Birnbaum la recinzione in ferro che compare alle spalle di Neil Young sulla copertina di After the Gold Rush.
Lo spirito dei luoghi, il «genius loci» dei latini, è quello che affascina e che sa ispirare, forse anche in modo inconscio. Umberto Eco sosteneva che possedere un libro e tenerlo in biblioteca senza aprirlo, a lungo andare era come leggerlo poiché, attraverso un processo di osmosi, se ne apprendeva il contenuto. Lo stesso avviene così con certi luoghi che sembrano in grado di trasmettere qualcosa di impalpabile e ineffabile, ma profondo. È quello che spinse nell’estate del 2009 John Mellencamp e il produttore T-Bone Burnett a ricercare l’esatta location in cui Robert Johnson registrò alcune delle sue canzoni, per realizzare le tracce dell’album Trouble no More. Incisero così nello stesso angolo di una stanza del Gunter Hotel di San Antonio in Texas, dove 73 anni prima il leggendario bluesman aveva suonato classici come Terraplane Blues e Dust My Broom. Forse anche le mura art deco-kitch del tempio dei Cavalieri di Finzia hanno un’energia non legata ai ritratti dei faraoni, ma alle note del rock’n’roll primordiale che lì fu inciso. Da anni, infatti, l’edificio è stato trasformato in appartamenti di lusso e uno di questi è stata la casa d’infanzia di Stefani Germanotta, che conosciamo oggi come l’icona pop Lady Gaga.



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