Difficile parlare della mostra «Il Tempo del Futurismo», a cura di Gabriele Simongini, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (fino al 28 febbraio, catalogo Treccani), dopo le tante e talvolta petulanti polemiche dei mesi precedenti (non quelle apparse su questa testata). Giustamente la direttrice del museo, Renata Cristina Mazzantini, l’ha voluta considerare una mostra popolare, generalista, divulgativa, attenuandone così la valenza incisiva che, va detto, non riesce ad avere. Non me ne voglia l’equilibrato curatore Simongini, autore di un’introduzione in catalogo molto corretta che cerca di problematizzare le scelte. Tuttavia il risultato appare appannato e confuso, forse proprio per il desiderio di non affrontare letture più approfondite, accostamenti significativi, lasciando perdere affondi critici, illustrazioni di momenti cruciali, dando chiavi di lettura innovative; che tuttavia fanno l’interesse di ogni mostra che voglia avere successo, almeno di critica. Quello di pubblico, nonostante l’impegno politicamente pompato di Osho, almeno da quanto ho visto visitandola un paio di volte, non è entusiasmante: evidentemente così presentato il Futurismo non eccita il pubblico. Cerchiamo di capire perché.
L’allestimento. Sale enormi, che inevitabilmente diluiscono le opere, allestite con criteri un po’ troppo arredativi, che guardano più alla simmetria e alla giustapposizione, piuttosto che al contenuto delle opere. Rimarcabile una parete (anzi due) tutta azzurra, saloni con opere disposte elegantemente tre a tre, con una leggera monotonia che certi geroglifici grigiastri in formato nanerottolo echeggianti le scelte tipografiche futuriste peggiorano notevolmente. Una quantità esorbitante di grammofoni e macchine da scrivere, automobili e motociclette disposte un po’ a caso, per riempire (non come segnale ad incipit, come nella grande mostra di palazzo Grassi del 1986, dove un unico aeroplano giganteggiava nel cortile): un po’ come cospargere di girasoli una mostra di Van Gogh; ci sta, ma anche no.
La disposizione delle opere appare davvero disorientante, con un effetto discontinuo, soprattutto nella sezione principale, del primo Futurismo, e in quella dell’aeropittura. Artisti grandissimi, come Boccioni, Severini e Carrà, che hanno identità, all’interno del Futurismo, estremamente definite, sono intercalate ad altri che si pongono come satelliti e interpreti, pur di grandissimo spessore. Balla, grazie alla magnifica donazione delle figlie al Museo, è rappresentatissimo, anche troppo (ci sono opere minori superflue, come una che citeremo più avanti).
Qualche problema lo pone anche la scelta delle opere: di Boccioni, Severini e Carrà mancano i grandi capolavori; di Severini è presentata un’opera (che dovrebbe essere la più importante) di proprietà della Galleria («Dinamismo di forme-luce nello spazio», ivi datata 1912), che gli studiosi (cfr. il catalogo generale a cura di Daniela Fonti) ritengono degli anni del dopoguerra (secondo): un punto interrogativo sulla data (che comunque avrebbe dovuto essere 1913-14 rispetto allo stile del quadro), almeno, sarebbe stato d’obbligo.
Un altro dipinto di Prampolini presente in catalogo («Simultaneità di ritmi»), datato 1919, solo per il fatto di esser stato dipinto su masonite (materiale inventato nel 1924 ma commercializzato alla fine degli anni Venti), avrebbe dovuto esser meglio studiato; così come, dello stesso autore, il «Béguinage» datato 1914 che tutti gli studiosi, da Enrico Crispolti in poi, consideravano degli anni Quaranta (ragione per cui non è mai stato esposto nelle mostre sull’artista): esempi di retrodatazione degli artisti stessi, materia corrente di studio per le avanguardie (non solo per il Futurismo). Idem per un Balla riferito al 1915 (ma non datato dall’artista) compreso nella donazione alla Gnamc («Linea di velocità +forma+rumore») che per la grammatica compositiva e la firma non si potrebbe mai riconoscere di quella data.
La mostra inizia poi con un gigantesco quadro di Segantini del 1886, artista considerato dai futuristi per la sua adesione al Divisionismo: ma la gigantesca mucca rappresentata, quanto di meno futurista si possa pensare, è precedente al Divisionismo, e perciò poco indicativo o addirittura fuorviante per un pubblico generalista. Inquietanti anche alcune presenze mimetizzate nel percorso: un Duchamp e uno Schwitters, che senso hanno se non inclusi in una sezione che mostri gli attagli con il contesto europeo? O un gilet di un certo Antonio Fiore Ufagrà, pittore che espone a via Margutta, ho scoperto da internet, che si erge come uno spazzolino colorato senza contesto? Due quadri di Sironi presentati con i vecchi titoli, ormai cambiati in tutte le bibliografie sironiane perché impropri e postumi, presentano la contraddizione di un «Autoritratto» dell’artista con due grandi seni, in epoca in cui la transizione sessuale non era facile, e delle «Trincee» dipinte prima che iniziasse la guerra (1914), e che comparati ai suoi studi e bozzetti rappresentano invece volumi di edifici. Non parliamo delle sculture di Boccioni, che già hanno destato inquietudini.
Purtroppo occorre fare questi appunti soprattutto per la sede istituzionale in cui vengono presentate le opere, ma anche in ordine a un fatto oggettivo. La mostra romana si pone come ultima tappa di una lunghissima storia di studi e di mostre internazionali sul Futurismo. Una bibliografia infinita è stata prodotta negli ultimi decenni, con approfondimenti di documenti, carteggi, opere, problematiche, interconnessioni con la grande famiglia europea delle avanguardie. Soprattutto, il Futurismo, che per sua scelta si era designato un campo di azione non italiano ma internazionale (basti pensare al primo manifesto, pubblicato a Parigi, o alla prima grande mostra di gruppo del 1912, che dopo la capitale francese scelse un percorso attraverso le maggiori capitali d’Europa), come tutte le eredità del pensiero umano non è un fatto puramente nazionale. In questo senso è stato deleterio e pregiudizievole il principio che ha dato vita a questa mostra, cioè il desiderio politico di celebrare un movimento che di fatto ha avuto connessioni con il fascismo.
Iscrivendosi in un dichiarato intento di «cambiare la narrazione», e stranamente pensando che il Futurismo fosse da «riscoprire» (quando è stato riscoperto e studiato dagli anni Cinquanta del secolo scorso e non certo solo da italiani), questa mostra si è idealmente posta come un dittico rispetto a quella forzatura che impose alla Galleria Nazionale una mostra identitaria (su Tolkien) del tutto fuori dal contesto istituzionale di azione del museo: la stessa mostra in una sede più adatta alle indagini multiculturali (Palazzo delle Esposizioni, ad esempio) avrebbe avuto un altro effetto. In questo senso sull’esposizione futurista ha gravato un atteggiamento velleitario, che comunque Simongini ha cercato di attenuare per quanto possibile. La parte finale ad esempio, tutta voluta dal curatore, è un caso di studio che avrebbe meritato un display più ampio e circostanziato, inibito però dalla lunga presentazione dello svolgimento del Futurismo storico.
Il catalogo della mostra, cui hanno contribuito diversi autori, non segna una tappa memorabile degli studi. Alcuni temi sono stati toccati con brevità impressionante, come quello su Futurismo e politica, alcuni sono divagazioni di carattere giornalistico, o puntualizzazioni tematiche che escono un po’ da quel registro «generalista» che la mostra si era prefisso.
Ma nella sostanza la novità della mostra appare nella ricchezza di opere poco note, mai o quasi mai esposte, che per l’occasione sono uscite dai depositi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, un nucleo che costituisce l’ossatura dell’esposizione. Un tesoro dissepolto, che certamente ispirerà positivamente l’auspicato riordino del percorso espositivo del museo, che speriamo di rivedere rinnovato e ispirato a principi più concreti e fruibili del precedente. Sul quale pure ci furono polemiche. Ma le polemiche, se disinteressate, possono essere fonte di riflessioni e rinnovamenti costruttivi.
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