Il leader ha «aspettato» Trump per l’intesa. Così ha provato a sistemare la turbolenza dell’ultradestra
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME Gli spettatori in fila per entrare al teatro Habima di Tel Aviv passano sotto le lampadine che da 467 giorni compongono la scritta «Bring them home», sempre accese in questi mesi di attesa angosciata per i famigliari degli ostaggi tenuti a Gaza dai terroristi di Hamas. Il dramma mette in scena gli eccessi della regina Jezebel, raccontati nella Bibbia, e l’attrice protagonista assicura che «no, non si è ispirata alle intemperanze di Sara»: eppure quando seduta a cena urla «S-A-L-E» tutto il pubblico pensa alle rivelazioni degli assistenti al servizio della coppia Netanyahu.
Portali a casa, hanno gridato in strada e nelle aule del parlamento (quando le guardie non li buttavano fuori prima) al marito Bibi, che — ormai è evidente — ha cercato di rinviare l’intesa per il cessate il fuoco pressato da ragioni di politica interna. Lo conferma Itamar Ben-Gvir, il ministro messianico e rappresentante dei coloni, che ha incarnato la più pesante tra quelle ragioni con le minacce ripetute di lasciare la coalizione al potere, se fosse stato raggiunto un patto per la tregua.
Adesso i parenti dei rapiti — oltre 250 portati via all’alba del 7 ottobre del 2023, ancora 98 prigionieri nella Striscia — si chiedono con rabbia perché l’accordo non sia stato definito già quest’estate: i termini di quello dichiarato ieri sono molto simili a quelli del documento sul tavolo del primo ministro tra maggio e luglio. Allora Netanyahu si era rifiutato di accettare la fine della guerra, aveva rilanciato il proclama propagandistico della «vittoria totale su Hamas», aveva fatto del corridoio Filadelfia — il pezzo di deserto al confine con l’Egitto — una questione esistenziale per lo Stato di cui è il premier più longevo, al governo per tredici degli ultimi quindici anni.
Nelle ultime ore prima dell’annuncio i suoi consiglieri sudavano per diffondere comunicati in cui spiegavano che Bibi, com’è soprannominato, aveva piegato i fondamentalisti, che le truppe sarebbero rimaste a Filadelfia. Non sembra così, anche se il ritiro avverrà per fasi e l’estrema destra spera sempre che i combattimenti possano ricominciare dopo i primi sedici giorni di scambio tra sequestrati israeliani — oltre la metà sarebbe morta in cattività — e detenuti palestinesi. «Non preoccupatevi, la pausa non reggerà», andrebbe sussurrando Netanyahu agli alleati, scrive Alon Pinkas, già diplomatico e adesso editorialista del quotidiano Haaretz.
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Perché il primo ministro — spiega Pinkas — ha osteggiato lo stesso piano proposto da Joe Biden fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca proprio per poter giustificarsi con la destra che lo sostiene: «Me lo ha chiesto l’amico Donald». Il suo istinto di sopravvivenza politica gli fa intuire che il presidente rientrante alla Casa Bianca potrebbe chiedergli concessioni ben più dolorose per la tenuta della coalizione: durante la campagna militare trasformata in campagna elettorale Netanyahu ha garantito a parole che l’Autorità palestinese non avrebbe mai ripreso il controllo su Gaza, che «l’esercito sarebbe rimasto nella Striscia per l’eternità» come aveva commentato Amit Segal, giornalista televisivo tra i suoi fedelissimi.
I generali stanno già definendo i piani per smobilitare le truppe e smontare le strutture costruite nel corridoio Netzarim che taglia Gaza. I palestinesi potranno tornare alle loro case in macerie nel Nord, ad accamparsi sulla polvere dove i coloni oltranzisti speravano (ancora sperano) di rinnalzare gli insediamenti evacuati nel 2005 su ordine di Ariel Sharon.
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