Le ragazze sarde e la maternità rinviata

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Nel giro di vent’anni, dal 2003 al 2023, la Sardegna conta quasi 123mila donne in meno. Donne potenziali madri, tra i 15 e i 49 anni (fasce che convenzionalmente rientrano nell’età feconda), una quota di popolazione via via erosa assieme alla propensione a far figli. Oggi, su un totale di 803mila femmine, quelle della fascia 15-49 anni sono poco più di 370mila; appena 300mila se si contano le ragazze fino ai 45 anni.

La nostra è la regione in cui si fanno meno figli, appena 7.231 nel 2023 e la tendenza – con un tasso di fecondità crollato a 0,91: meno di un figlio per donna, contro una media nazionale pari a 1,20 – sembra quella di un declino ormai irreversibile, quello a cui è condannata una popolazione senza più una quota di giovani. Il numero dei nuovi nati si riduce in Sardegna anno dopo anno: vent’anni fa, nel 2004, furono 13.124; nel 2014, dieci anni fa, 11.473; nel 2018, 9.438 (dunque sotto il tetto delle 10mila nascite), per arrivare ai 7.703 nati del 2022 e, appunto, ai 7.231 dello scorso anno. Un ventennio in cui nell’Isola la quota di popolazione più giovane (0-14 anni) è passata da 219mila del 2004, ai 200mila del 2014; ai 164mila di oggi.

Andando a vedere il numero medio di figli per donna, va detto che il crollo definitivo sotto quota 1 è avvenuto nel 2019; ma basta spulciare la serie storica dei dati Istat per osservare che se fino al decennio dei Sessanta il tasso era di una media di 3 figli per donna, dal 1970 è andato sotto fino ai 2,08 del 1979, l’anno in cui comincia la discesa più rovinosa. Nel 1980 il tasso di fecondità era di 1,9 figli per donna, fino all’1,3 del 1990, e all’1,06 del 2000. Un continuo calo senza alcun cenno di ripresa, decenni in cui manca in Sardegna una consistente quota di nuove leve, il che si traduce in un mancato ricambio generazionale e in un irreversibile invecchiamento della popolazione.

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A partire dal primo censimento del 1861, anno dell’Unità d’Italia, quando i residenti in Sardegna erano 609.015, l’andamento delle rilevazioni demografiche (a cadenza decennale fino al 2018) aveva sempre un segno positivo, con un incremento a doppia cifra (+17%, 795.793 residenti) nel 1901; +9,1% nel 1911; 868mila residenti); e un magro +2,0% (885mila) nel 1921, che ovviamente risentiva dei contraccolpi demografici della Grande Guerra. Una parentesi è doverosa: il censimento del 1891, quello che registrava anche gli anni della prima grande emigrazione dei sardi all’estero, non venne fatto a causa di difficoltà finanziare della macchina dello Stato, così come quello del 1941 per ragioni legate allo scoppio della guerra. Nel 1931, in pieno regime fascista, si registra un incremento demografico dell’11,1% (i sardi sono 983.760). Il salto oltre il milione di cittadini, l’Isola lo fa (pure di poco) nel 1936 quando i residenti censiti furono un milione e 24mila (+5,1% rispetto al decennio precedente).

È nel 1951 che si registra il balzo mai visto e che mai più si ripeterà: +23,4% che porta a contare 1.276.023 residenti. Questo, per dire, è l’anno in cui sono nati 32.818 bambini (vivi, allora le statistiche riportavano questa dicitura vista la percentuale dei nati morti). Un’abbondanza che è rimasta costante durante il ventennio tra il 1945 e il 1964 con una media di 33mila bambini all’anno; mentre il crollo della fecondità, quello di una curva discendente che non è più risalita, è cominciato nei Settanta.

Nel 1971, per dire, i nati furono 28.520 (dati Istat, serie storica), un paio di centinaia in meno rispetto al tetto dei trentamila (e più) bambini delle precedenti medie annuali, per arrivare poi, a partire dal 1975, a perdere mille nati all’anno fino ai 22mila del 1981. Che cos’è successo in quel decennio? Al di là delle motivazioni che potremmo ricondurre alla stagnazione economica e all’emigrazione, che cosa esattamente a partire da quei due lustri ha spinto le famiglie, o per meglio dire le donne sarde, a ridurre la vocazione alla maternità? «È successo che il processo di modernizzazione della società sarda ha spinto a una maggiore accessibilità dell’istruzione e alla ricerca di una realizzazione di sé», spiega Sabrina Perra, sociologa dell’Università di Cagliari, studiosa delle dinamiche demografiche e del fenomeno della denatalità nell’Isola. Ma attenzione, avvisa: «Non è corretto dire che la fecondità è crollata perché le donne sarde a un certo punto hanno preferito lavorare fuori casa. Un’affermazione errata, anche perché basta andare a vedere i tassi di occupazione femminile, sempre bassissimi». Quindi cos’è successo? «È successo che, appena c’è stata la possibilità, le ragazze sarde hanno voluto conquistare un’autonomia sacrosanta, prima studiando e poi lavorando. Questo le ha spinte non a cancellare il desiderio di maternità, bensì a posticipare».

La Sardegna non solo oggi ha il tasso di fecondità più basso in Italia, ma anche la più alta età media delle madri primipare: 33,2 anni. La maggior parte delle donne sarde che partoriscono hanno fra i 30 e i 39 anni, mentre il 15% ha più di 40 anni.

Nel quadro generale della denatalità, «entra in gioco anche la disponibilità alla maternità, e va detto che la Sardegna non ha mai brillato da questo punto di vista», spiega la sociologa. «Anche negli anni in cui si facevano tanti figli, quando la fecondità era soprattutto di coppia, c’era una percentuale di coppie che sceglievano di non averne. Il che non era una deminutio, come invece è per esempio in Sicilia. In Sardegna la coppia in sé ha sempre avuto un valore, a prescindere dalla fecondità. E infatti ci sono, e ci sono sempre stati, lunghissimi fidanzamenti».

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