Donato Iacobucci, docente di economia applicata all’università politecnica delle Marche e curatore del libro «L’industria italiana contemporanea (Carocci), anche Confindustria ieri ha confermato che l’economia manifatturiera è in una crisi drammatica. Perché?
È il risultato di debolezze strutturali accumulate da decenni: la difficoltà di produrre innovazione, organizzare le filiere e adeguarsi alla pervasività delle tecnologie digitali. Nel libro raccontiamo come il declino ha radici lontane: è iniziato tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Fino alla crisi del 2008 il sistema è stato trainato dai distretti industriali. Ma ormai quel modello è inadeguato. Anche la sinistra ha qualche responsabilità in questa vicenda.
Quali?
Quella di aver eccessivamente esaltato l’esperienza dei distretti anche perché sembrava un modello più accettabile di capitalismo rispetto a quello delle grandi imprese. Ma ora il contesto tecnologico e internazionale è cambiato. Si trattava di capirlo prima.
Lei vive nelle Marche, uno dei territori di questa crisi…
Se guardiamo alla storia di questa regione la filiera dell’elettrodomestico è stata importante. Ha garantito sviluppo economico e coesione sociale. Fino a poco più di 20 anni fa l’Italia era leader europeo del settore. Nell’ultimo ventennio l’occupazione si è dimezzata e le principali imprese sono state acquisite da gruppi esteri. La crisi della Beko prosegue in questa tendenza. Un disastro per l’intera filiera.
La produzione industriale cala da 21 mesi. Se continua così non si rischia di smantellare l’intero sistema?
Spero si tratti di un dato congiunturale, dovuto alla crisi tedesca. È evidente, però, che la crisi dipende anche da fattori strutturali endogeni, primo fra tutti la limitata capacità di innovazione delle imprese. D’altra parte, non è possibile reagire a questa situazione pensando di abbandonare il sistema industriale e sostituirlo con quello dei servizi e del turismo.
In effetti, si parla solo di Airbnb, record dei turisti e tutti chef in Tv…
Turismo o agricoltura sono settori caratterizzati da bassa produttività e bassi salari. La finalità della politica industriale dovrebbe essere quella di creare lavoro di qualità e aumentare i salari. L’industria manifatturiera resta fondamentale in questa prospettiva.
Quanto ha influito sulle difficoltà dell’industria la grande moderazione salariale che affligge l’Italia dagli anni Novanta?
Ha ritardato la pressione sulle imprese ad innovare. E infatti molte oggi competono sul costo del lavoro e non sull’innovazione.
Da dove si ricomincia?
Dalla ricerca e dall’innovazione. Ma non è semplice. Abbiamo accumulato decenni di ritardo e non sarà facile recuperare il tempo perduto. Il problema riguarda non solo l’Italia ma l’Europa. Questo è uno dei punti chiave del rapporto Draghi: su alcune filiere chiave per la transizione digitale ed ecologica l’Ue ha perso in capacità di ricerca e innovazione oltre che nella produzione a favore di Usa e Cina.
Il governo Meloni è orientato a tagliare 702 milioni alle università nei prossimi tre anni…
È un provvedimento che va nella direzione opposta a quella che si dovrebbe prendere. Si può comprendere che esistano vincoli nel bilancio pubblico e inefficienze nella spesa, ma in questo contesto la spesa per la ricerca e l’istruzione è assolutamente strategica. Tra l’altro questi tagli verrebbero imposti a un sistema già sottofinanziato rispetto a quello dei paesi industriali avanzati. Oltre allo scarso impegno nella ricerca, giova ricordare che l’Italia è penultima nella percentuale di laureati sulla popolazione. Dovremmo fare uno sforzo per cercare di ribaltare questa situazione.
Cosa ha fatto il governo Meloni per contrastare il crollo dell’industria?
Il Ministero delle Imprese ha pubblicato un «Libro Verde sulla politica industriale: Made in Italy 2030» con l’obiettivo di elaborare una nuova strategia di politica industriale. L’iniziativa è lodevole. Si tratterà di capire se promuoverà la trasformazione del sistema oppure se prevarrà il sostegno ai settori tipici del «Made in Italy». È comprensibile che si metta l’accento al sostegno dell’esistente viste le difficoltà di moda, elettrodomestico o automotive. Il rischio è di non dedicare sufficienti risorse al cambiamento strutturale e all’innovazione. Sono le leve per contrastare la tendenza al declino.
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