Referendum, Meloni si chiama fuori. E sale lo scontro sul Veneto

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Sul referendum per l’autonomia, il governo di Giorgia Meloni si chiama fuori: non parteciperà all’udienza del 20 gennaio davanti alla Corte costituzionale per perorare la causa della non ammissibilità del quesito che intende abolire la legge Calderoli. Eppure il ministro leghista, padre della norma, ha sostenuto in ogni sede che il quesito non sia ammissibile, anche perché lui lo ha strumentalmente collegato alla legge di bilancio, e su queste materie la Costituzione nega la via referendaria. Non è solo «un passo indietro» per lasciare esprimere i cittadini nelle urne, quello di Meloni. Ma una sconfessione dell’alleato.

I GOVERNI POLITICI, IN PASSATO, hanno molto spesso perorato la causa delle non ammissibilità dei referendum su leggi approvate dalle loro maggioranze. Stavolta no. E non è un caso che il Veneto leghista abbia invece deciso di partecipare all’udienza del 20 per difendere l’autonomia. La novità emersa ieri da fonti di palazzo Chigi è che la neutralità del governo riguarderà anche gli altri cinque quesiti al vaglio della Corte (l’udienza è stata rinviata al 20 nella speranza che siano già stati eletti i 4 giudici mancanti): e cioè quelli della Cgil sul Jobs Act e quello che punta a rendere più facile la cittadinanza per gli immigrati, promosso da +Europa.

E se sul Jobs Act la mossa è comprensibile (le norme erano state approvate da Renzi) e la cittadinanza è una legge del 1992, lavarsi le mani sull’autonomia ha un peso politico assai diverso. Che non si spiega solo con la volontà di Meloni di non legare la vita del suo governo ai responsi referendari, dall’autonomia fino al premierato a lei caro, per non seguire l’infelice esempio di Renzi che nel 2016 cadde proprio sul referendum costituzionale.

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LA LEGA INFATTI NON HA apprezzato. Se il referendum sarà ammesso, i tempi per modificare la legge e farlo saltare saranno piuttosto stretti: la norma prevede infatti che si voti tra il 15 aprile e il 15 giugno. Modificare l’autonomia alla Camera e al Senato in pochi mesi, tra le proteste delle opposizioni, sarebbe molto difficile. Dunque, se la Consulta darà il via libera (presumibilmente a febbraio), sarà una primavera referendaria: e l’amplissimo fronte anti-autonomia farà di tutto per raggiungere il quorum del 50%. Mentre Zaia e il collega lombardo Attilio Fontana sono già virtualmente a capo del fronte dell’astensione, sulla falsariga dell’«andate al mare» di Bettino Craxi nel 1991. Con Meloni democristianamente a guardare.

IL GELO DELLA PREMIER sull’autonomia fa il paio con l’insistenza con cui invece ha deciso di impugnare davanti alla Consulta la legge della Campania per il terzo mandato a Vincenzo De Luca. Giovedì in consiglio dei ministri il leghista Calderoli ha messo a verbale il suo dissenso, che riguarda il principio generale e la sorte di Luca Zaia in Veneto e poi di Massimiliano Fedriga in Friuli. E la volontà del Carroccio di arrivare a una legge nazionale che consenta a tutti i governatori di fare più mandati. Una ipotesi su cui, ammette la Lega, «non c’è intesa» nel centrodestra.

Tanto che i leghisti stanno già studiando vari piani per non cedere il Veneto a Fdi. Zaia, con prudenza, vuole aspettare il verdetto della Consulta su De Luca che arriverà entro fine maggio. I suoi in Veneto minacciano di correre da soli, con una “lista Zaia” in grado secondo le speranze di battere sia Meloni che il centrosinistra. «Una lista così vale il 40-45%, e il Doge li manda tutti a casa…», ragionano. Salvini viene tirato per la giacca e accusato di non difendere abbastanza i governatori.

Il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio ieri ha detto all’Adnkronos che «si deve aprire un ragionamento che vada anche oltre i confini della maggioranza». «È una questione di democrazia: parlamentari, ministri, presidenti del Consiglio e della Repubblica non hanno limiti di mandato, invece presidenti di Regione e sindaci sì, mi sembra assurdo», attacca.

Ma sponde nelle opposizioni non ce sono: Schlein vuole liberarsi di De Luca e non muoverà un dito per Zaia dopo aver risolto le questioni Bonaccini e Emiliano. « Abbiamo sempre trovato una soluzione unitaria su tutte le candidature, anche le più difficili», insiste Centinaio. E invita gli alleati che hanno votato l’autonomia a «comportarsi di conseguenza» e andare avanti con la riforma.

DA FDI ARRIVA UNA NUOVA doccia fredda. «La decisione del governo sulla Campania dimostra che non c’è alcuna volontà di andare nella direzione dei tre mandati», mette in chiaro il numero due dei senatori Raffaele Speranzon. «Il limite dei due mandati riteniamo garantisca alternanza e ricambio generazionale». Sul dopo Zaia, Speranzon derubrica i malumori leghisti: «Le loro sono dichiarazioni che servono agli iscritti del partito, ma gli elettori veneti di centrodestra vogliono la coalizione unita. E le proposte di Fdi dovranno essere tenute in considerazione per rispetto del 37,5% di veneti che ha votato per noi alle europee».

Lo scontro è destinato a durare a lungo. Il voto, ha fatto capire Meloni, sarà in autunno, nessun rinvio alla primavera 2026. «Legittimo che il premier dica quel che vuole, ma noi rivendichiamo la presidenza», insiste l’assessore regionale Roberto Marcato. «Per noi il Veneto è la linea del Piave», rincara il capogruppo leghista in regione Alberto Villanova. «Siamo pronti a correre da soli».



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