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Cecilia Sala è tornata in Italia. E, mentre si rincorrono tesi complottiste di ogni genere, supposizioni sul ruolo degli Stati Uniti d’America e nervosismi su eventuali somme versate, è impossibile non notare come molti commentatori (e anche giornalisti) si siano concentrati sul suo aspetto fisico ed estetico.
Appena scesa dall’aereo Sala è apparsa, tutto sommato, in buone condizioni di salute. Si è perfino concessa un filo di trucco e non ha visibili segni di torture. Sta proprio bene per essere una che ha passato tre settimane di carcere duro in Iran, è la sintesi dei pareri a riguardo. Quindi? Non è vero che la situazione fosse emergenziale, non ha imparato la lezione, forse le avrebbe fatto bene starci un altro po’.
Anche perché non dimentichiamo che Cecilia Sala – giornalista che si occupa di esteri – se l’è cercata. Fosse rimasta in cucina non le sarebbe successo.
È uno schema ricorrente: prendersela con chi è vittima di qualcosa perché non ha troppo “l’aspetto” della vittima. Evidentemente è troppo forte nel nostro immaginario la convinzione che chi merita le attenzioni degli altri per una sofferenza deve mostrarla al 100%. Strisciare a terra. Sanguinare. Non sorridere. Assolutamente, poi, non reagire. Altrimenti la pena inflitta dalla comunità sarà peggiore della causa di tale sofferenza: non essere creduta.
Cecilia Sala è soltanto l’ultima di una serie di lampanti esempi. Per restare nell’ambito di casi simili, Rossella Urru – cooperante per il Comitato Internazionale per lo Sviluppo di Popoli e rapita nel 2012 nel deserto algerino – venne criticata perché si mostrò troppo “sorridente” prima di scendere le scalette. Mentre un’onda di ferocia senza precedenti si abbatté su Silvia Romano, volontaria dell’ONG Africa Milele e liberata il 9 maggio 2020 dopo 18 mesi di prigionia in Kenya: non solo si era convertita alla religione islamica, quindi per molti fu assurdo l’impegno profuso per il rilascio di una “traditrice”, ma addirittura osò recarsi dall’estetista nella sua prima uscita pubblica.
Ma volere che le vittime siano davvero vittime, inermi, indifese, striscianti, vale dappertutto. Pensiamo a Gino Cecchettin, accusato di lucrare sulla morte della figlia, solo perché non si è chiuso in casa a piangere e ha trasformato il dolore in battaglia. Ma anche a Giorgia Soleri, bersagliata da Selvaggia Lucarelli perché, se si ammette di soffrire di una malattia invalidante (nel caso specifico, vulvodinia) e si usano i social per sensibilizzare alla questione, allora poi ci si deve mostrare sempre allettate e moribonde. L’influencer si è macchiata della terribile colpa di partecipare ad una trasmissione televisiva “movimentata” (Pechino Express), perciò le sue dichiarazioni sulla patologia, a quanto pare, non sono più credibili. E Maria Rosaria Boccia? Una calcolatrice di cui non ci si può fidare, perché ha raccolto prove a suo favore invece di farsi sovrastare dai giochi del potere.
Questa tendenza applicata alla vita di tutti i giorni, a noi persone “non famose” oppure che non balziamo agli onori delle cronache per situazioni particolari, porta alla classica situazione in cui le donne che subiscono violenza non vengono credute. Se denunci dopo mesi, ma in quel lasso di tempo hai pubblicato sui tuoi social foto in cui ti diverti, non stai male davvero. Se dopo che ti hanno violentata ad una festa, stordita, continui la serata perché sei in confusione e non vuoi affrontare subito la cosa, allora stai mentendo.
È un caso che stiamo parlando soprattutto di donne? Chiaramente no. Il sospetto che la vittima sia complice della sua condizione, e che vittima non lo sia fino in fondo se non mostra segni ben evidenti, è una delle armi più potenti del patriarcato per umiliare, depotenziare e zittire il genere femminile. D’altro canto, agli uomini non è concesso di essere davvero vittime in senso stretto: la loro virilità non può essere compromessa, perciò quando si tratta di loro opporsi a tale condizione viene esaltato, e chi non si dimostra all’altezza è un omuncolo senza spina dorsale (quando il patriarcato è un boomerang…). Naturalmente, non mancano i casi in cui anche ai maschi sia capitato di assaggiare questo boccone amaro: gli è concesso di reagire ai torti, ma quando questi gli vengono fatti in condizioni non sicure – come quando sfilano nei cortei politici – ecco che anche loro un po’ se la cercano e un briciolo di parità sembra scorgersi. Naturalmente al ribasso.
«A livello cognitivo, se veniamo a conoscenza del fatto che una persona abbia subito un abuso di qualche tipo, ci aspettiamo che i segni siano visibili e di trovarla in un certo modo dal punto di vista comportamentale. Non scorgere questi segni ci crea una dissonanza – ci spiega il dottor Giacomo della Sala, psicologo e psicoterapeuta – Così aggiungiamo noi delle spiegazioni per provare a darci, razionalmente, una risposta e una difesa (quei “allora non sta poi tanto male”). Quando subentra un’attenzione mediatica, poi, c’è un’ulteriore scalino perché la questione tempo viene anche superata: il ruolo della persona in questione viene a coincidere completamente con quello di vittima e si perde la complessità dell’esperienza». Una complessità che richiederebbe una maggiore propensione all’approfondimento, al ragionamento, all’empatia. In poche parole, il problema è sempre lo stesso: pensiamo sempre troppo poco prima di parlare. E di commentare.
Non è mai troppo tardi per capire che il segno di una società matura, evoluta, non sta solo nelle scoperte tecnologiche e nella loro capacità di semplificarci la quotidianità, ma nella dimostrazione del rispetto profondo per la dignità di ogni vita e delle sfaccettature delle questioni. Sta a noi, insomma, decidere se vogliamo continuare a imporre alle vittime il peso insostenibile di un copione prestabilito, o se siamo finalmente pronti ad accoglierle come esseri umani, in tutte le loro contraddizioni.
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