La turista uccisa da un elefante in Thailandia e la necessita di visitare solo i santuari etici

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Una turista spagnola di 22 anni, Blanca Ojanguren García, è stata uccisa da un elefante al Koh Yao Elephant Care Centre nel sud della Thailandia. La morte di Blanca è stata confermata dalla struttura di accoglienza per elefanti, che ha spiegato che la turista spagnola faceva il bagno ad un’esemplare femmina quando, passandole davanti, è stata colpita da una zanna che le ha provocato gravi ferite alle quali non è sopravvissuta malgrado la corsa in ospedale. Non è la prima volta che succede: gli incidenti con elefanti in cattività sono sempre più frequenti. Ma molti di questi incidenti, e di queste tragedie, sarebbero evitabili se il contatto con gli animali selvatici fossero vietatati. Come è sempre rigorosamente vietato nei santuari etici, mentre continua ad essere incentivato, e pubblicizzato, in quelle strutture per animali dove l’interesse primario è il biglietto d’ingresso pagato dal pubblico.

In vacanza in Thailandia per incontrare gli elefanti

Blanca, studentessa di giurisprudenza e relazioni internazionali presso l’Università di Navarra in Spagna ma che attualmente viveva a Taiwan per studio, era in vacanza con il fidanzato e aveva molto desiderato l’incontro ravvicinato con un animale straordinario, quale è l’elefante asiatico. Probabilmente prima della partenza aveva cercato uno dei posti tanto pubblicizzati in Thailandia per incontrarli, dove fosse possibile fare il bagno con loro, dargli da mangiare e, possibilmente, coccolarli un po’. E probabilmente il Koh Yao Elephant Care Centre, con un sito pieno di fotografie in cui gli elefanti vengono accarezzati, cavalcati, nutriti e lavati, le era sembrato il posto perfetto per quell’incontro magico.

Il Koh Yao Elphant Care Centre non è un santuario etico

Ma erano proprio quelle foto che avrebbero dovuto metterla in allarme. Il Koh Yao Elephant Care Centre non è un «santuario», termine abusatissimo che garantirebbe il rispetto per l’etologia dell’animale e il suo accudimento al di fuori di logiche di sfruttamento turistico. Se lo fosse stato, se la conservazione animale fosse stata il suo vero obiettivo, quelle foto non avrebbero mai potute essere esibite come marchio di qualità. Non è un caso che Jason Baker, vicepresidente senior della Peta abbia affermato a riguardo: «Qualsiasi santuario che consenta agli esseri umani di toccare, nutrire, fare il bagno o interagire da vicino con gli elefanti in qualsiasi modo non è un luogo di rifugio per gli elefanti e mette in serio pericolo la vita dei turisti e degli animali».

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Il 75% degli elefanti in Asia è sfruttato per il turismo

Ma i finti santuari sono tantissimi, sempre di più, da quando in Thailandia hanno capito che il turismo può trovare negli animali e nel loro sfruttamento occulto una risorsa formidabile. Come sottolinea World Animal Protection Thailand nel suo rapporto del 2024, infatti, «dei 2798 elefanti in cattività che vivono in luoghi turistici in tutto il paese, quasi il 75% degli elefanti in cattività viene utilizzato per l’intrattenimento turistico in Asia». Il centro di Koh Yao, come moltissimi altri, offre pacchetti “elephant care” che consentono ai turisti di preparare il cibo e nutrire gli animali, nonché di lavarli e passeggiare con loro. Questi pacchetti costano tra 1.900 e 2.900 baht (tra i 53 e gli 81 euro). Una cifra che un turista sceglie di investire molto volentieri, ansioso di un contatto fisico da ricordare per sempre.

I santuari etici, dove il benessere animale è al primo posto

Ma se davvero ciò di cui siamo alla ricerca è l’emozione unica di entrare in relazione, anche solo per un breve momento, con un animale selvatico, non dovremmo mai dimenticare che i santuari per essere tali devono essere etici, cioè devono essere strutture realmente votate al benessere animale, dove gli elefanti non ballano, non giocano a palla, non trasportano umani che non hanno voglia di camminare e soprattutto non sono violentati sin da cuccioli per poterne sfruttare l’arrendevolezza. Le regole alle quali attenersi sono semplici: qualsiasi struttura inviti a toccare, cavalcare o entrare in contatto con elefanti o, peggio ancora, con i loro cuccioli, va evitata come la peste se davvero si vuole il bene di questi animali.

No al contatto diretto: è pericoloso, porta malattie e provoca stress negli animali

Tenendo presente, inoltre, che il contatto con gli uomini può facilmente trasformarsi in tragedia. «Più persone vengono uccise o gravemente ferite dagli elefanti in cattività rispetto a qualsiasi altro animale selvatico in cattività – spiega ancora World Animal Protection Thailand. –  Attualmente, in media, viene uccisa una persona per ogni elefante maschio tenuto in cattività. Oltre a queste uccisioni dirette, il contatto ravvicinato con gli elefanti in cattività può trasmettere malattie pericolose come la tubercolosi ai turisti e agli addestratori». Il motivo del pericolo, oltre alla dimensione dell’animale che, negli esemplari asiatici, può arrivare ai tre metri e mezzo di altezza, è indicato dagli esperti nella presenza di un vero e proprio sintomo da stress post traumatico che può portare anche a forme di aggressività. Le cause? i metodi coercitivi utilizzati dagli addestratori, per esempio l’abitudine di colpirli con bastoni o oggetti metallici affilati per ottenerne le prestazioni volute, oppure l’isolamento a cui gli elefanti sono condannati in queste strutture. Animali molto socievoli, i giovani elefanti subiscono veri e propri traumi quando vengono separati dalle madri per essere poi trattenuti con catene per sfinirli mentre si abituano a stare isolati.

Alla ricerca del santuario etico per un incontro consapevole

Organizzarsi per riuscire a vedere, meglio se da lontano, un animale selvatico in natura, libero di muoversi e comportarsi in modo naturale, rimane sempre il migliore tra gli obiettivi possibili per il viaggiatore consapevole. Ma se non è possibile, la scelta può e deve ricadere sui santuari etici. Ce ne sono molti e sono ben organizzati. E pagherete un biglietto sapendo che parte di quei soldi verrà utilizzata per permettere a questi animali di continuare a vivere, protetti ma non sfruttati, dopo anni e anni di vita in catene.



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