Per anni, gli Stati Uniti hanno inseguito una globalizzazione che, secondo molti analisti, ha finito per indebolire l’economia nazionale, distruggere posti di lavoro e impoverire intere comunità. Oggi, alla luce di un deficit commerciale in costante crescita – che ha raggiunto i 131,4 miliardi di dollari solo nel gennaio scorso – e del crollo dell’occupazione manifatturiera, il presidente Donald J. Trump rilancia con forza la sua politica dei dazi, sostenendo che siano non solo necessari, ma indispensabili.
Non è una posizione nuova. Già nel 2005, un editoriale del New York Times parlava di “deficit pericolosi”, denunciando come gli Stati Uniti vivessero ben oltre le proprie possibilità economiche. Da allora, la situazione è solo peggiorata. In stati simbolo della manifattura come New York e Ohio, l’occupazione nel settore è crollata rispettivamente del 59% e del 35% dal 1990. Il risultato? Città svuotate, comunità devastate e un allarmante aumento delle morti per overdose legate anche alla perdita di lavoro.
Ma mentre parte del commentariato liberal ha liquidato con sarcasmo il ritorno alla produzione interna – come quando su MSNBC si ironizzava sull’idea di aumentare la produzione di legname negli Stati Uniti – la realtà economica racconta una storia diversa: quella di un’industria che torna a casa e una sinistra globale che se per decenni ha criticato la globalizzazione, nelle sue forme più alte di governo non ha fatto altro che schierarsi a sua difesa. Lo capiranno mai gli/le elettori/trici?
Sotto la spinta della politica commerciale trumpiana, inoltre, decine di colossi industriali e tecnologici, da Apple a Hyundai, passando per TSMC, Merck e Nvidia (il big player dell’innovazione per eccellenza), hanno annunciato investimenti record in territorio statunitense. Dai semiconduttori ai farmaci, dalle biciclette ai veicoli elettrici, si moltiplicano i casi di reshoring, ovvero il ritorno delle linee produttive negli USA.
Le cifre sono eloquenti: centinaia di miliardi di dollari in nuovi investimenti, decine di migliaia di nuovi posti di lavoro, stabilimenti riaperti in stati simbolo della working class come Ohio, Indiana e South Carolina. E anche aziende straniere – da Rolls-Royce a LG, da Campari a Saint-Gobain – stanno scegliendo l’America come base strategica per il futuro.
Questa tendenza, sostenuta anche dai dazi introdotti durante la presidenza Trump, ha convinto persino metà delle imprese giapponesi a incrementare i propri investimenti negli Stati Uniti. Il messaggio è chiaro: la politica commerciale può cambiare il corso dell’economia reale.
Come si può, quindi, criticare l’amministrazione Trump se in Europa, per esempio, non si riescono a trattenere neanche i propri talenti? Figuriamoci attirare investimenti miliardari…
Trump, quindi, non ha tutti i torni: la sua missione dichiarata è “Make America Wealthy Again”, e i numeri sembrano iniziare a dargli ragione.
foto press.donaldjtrump.com
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