L’uscita della Belloni è il primo effetto del cambio della guardia a Washington

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Ci sono due date che lasciano perplessi nella vicenda delle dimissioni di Elisabetta Belloni dal DIS, l’organismo che coordina i nostri servizi segreti: il 19 dicembre, giorno dell’arresto della giornalista Cecilia Sala a Teheran, e il 23 dicembre, giorno in cui la Belloni comunica alla Premier, Giorgia Meloni, e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, la sua decisione di dimettersi dall’incarico, cosa che farà il 15 gennaio. Ora si può girarla come si vuole ma quelle due date nel senso comune non dovrebbero stare insieme. La decisione per una civil servant, come ama definirsi la Belloni, appare, per usare una eufemismo, stravagante e a dire poco inopportuna: come si fa a lasciare un ruolo del genere in una situazione d’emergenza in cui il lavoro dell’intelligence ha una funzione vitale per salvare una cittadina italiana?

Già, solo questo dimostra che c’è qualcosa di più profondo nella vicenda, il primo segnale di un cambio d’epoca. Ora nelle dimissioni della Belloni sicuramente hanno pesato i difficili rapporti che la responsabile del DIS aveva con Mantovano e con il responsabile dei nostri servizi all’estero (AISE), il gen. Giovanni Caravelli. Nel corso di questi mesi la responsabile del DIS si è sentita «scavalcata», «inutile» quasi «superflua», visto che il suo ruolo di coordinamento veniva aggirato dal rapporto diretto tra Palazzo Chigi e i responsabili dell’intelligence. Di fatto quest’anno la Belloni si è occupata per volontà della Meloni molto della supervisione del G7 a presidenza italiana per nulla dei servizi: per cui finito quell’impegno si è sentita priva di una funzione e i suoi interlocutori non hanno fatto nulla per smentire quell’impressione. Addirittura nella riunione di palazzo Chigi tra la premier e i ministri degli esteri e della Giustizia, che si è occupata nei primi giorni di gennaio della giornalista rapita, la Belloni non è stata neppure invitata.

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Ma la questione più importante riguarda i rapporti tra il nostro governo e la nuova amministrazione americana di cui il caso Belloni è una spia importante. Donald Trump, si sa, non si fida del vecchio deep state americano, che considera ostile: già solo l’idea di cambiare migliaia di funzionari pubblici contenuta nel Project 2025, tradisce il suo pensiero. Figurarsi la tabula rasa che farà nei servizi, dalla FBI, all’intelligence nazionale (ODNI), alla CIA. Per cui pure gli attuali esponenti del deep state italiano che avevano a che fare con il vecchio apparato americano, oltre a non avere più interlocutori oltreoceano, saranno guardati con diffidenza.

Appunto, siamo di fronte ad un cambio d’epoca profondo. Trump si fida solo del suo mondo e molti si adeguano: lo stop al factchecking su Facebook e Instagram voluto da Zuckerberg per strizzare l’occhio al nuovo presidente e al suo scudiero Elon Musk è l’emblema del momento.

Giorgia Meloni è stata abile ad adeguarsi subito. La corsa verso la nuova amministrazione è stata talmente veloce, per superare la concorrenza di Salvini, da apparire quasi scomposta: la presenza all’inaugurazione della Chiesa di Notre Dame, malgrado ci fosse già Mattarella, per avere il primo incontro e poi la scappata e fuga nella residenza trumpiana di Mar-a-Lago («ha attraversato l’oceano per stare con Trump, al netto del documentario, 50 minuti» ironizza Matteo Renzi mai tenero con la premier) dimostrano che l’operazione è riuscita. Solo che nel nuovo schema la Belloni – esponente di punta del vecchio deep state – c’entra poco e magari è d’intralcio: grazie al nuovo rapporto con Washington la premier è più informata di quella che sulla carta dovrebbe essere la responsabile della nostra intelligence. Un paradosso che nasconde il rapporto difficile tra una Meloni sempre più attratta dal magnetismo del nuovo conservatorismo della coppia Trump-Musk, e una Belloni che per formazione e cultura guarda all’Europa dove probabilmente troverà rifugio alla corte di Ursula von der Leyen.

Al suo posto un militare più adatto al momento, cioè abituato all’obbedir tacendo. Magari proprio il gen. Carelli o, visto che negli attuali vertici l’Arma è poco rappresentata, un carabiniere come il generale Cinque che piace tanto a Mantovano.



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