La concorrenza sleale e fattispecie di contraffazione online

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La disciplina della concorrenza sleale trova la sua regolamentazione civilistica negli artt. 2595 – 2561 c.c. e risponde a un principio generale di governo del mercato (di natura pubblicistica) e, al contempo, individua una serie di regole (di natura privatistica) sufficienti a disciplinare l’attività d’impresa nel suo svolgersi.

In particolare, in tema di atti idonei a ledere la leale concorrenza tra imprenditori nel mercato, l’art. 2598 c.c. prevede una forma articolata di condotte che ineriscono al rapporto tra imprenditori (ovvero, la condotta dell’imprenditore “a” è sleale solo in ragione dell’esistenza di un imprenditore “b”), in funzione degli effetti che tali condotte producono nel consumatore e nella sua percezione della realtà di mercato. L’illecito risiede, quindi, nel pericolo (e/o la presunzione) che determinate condotte possano alterare e/o distorcere l’apprezzabilità esterna di un’azienda a favore o discapito di un’altra.

Rispetto alla disciplina civilistica occorre precisare che vi sono profili di sovrapposizione con altre normative inerenti istituiti giuridici inevitabilmente interconnessi. Ci si riferisce, in particolare, alla normativa c.d. antitrust (L. 10.10.1990, n. 287, “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), a quella in materia di diritto del consumatore (D.Lgs. 6.9.2005 n. 206, c.d. “Codice del consumo”, e sue successive modifiche, specialmente il D.Lgs. 2.8.2007, n. 146 intitolato “Attuazione della direttiva 05/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 02/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 06/2004”), nonché con le recenti norme in materia di comunicazione (commerciale) pubblicitaria (D.Lgs. 2.8.2007 n. 145 intitolato “Attuazione dell’art. 14 della direttiva 05/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole” – ove all’art. 2, lett. c si intende per professionista “qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” -; nonché le Direttive dell’AGCM, e al Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, 44° ed.).

La normativa citata attiene ai diversi profili disciplinari di un unico macro diritto, che, possiamo dunque ritenere, ne costituisce il fondamento e stessa condizione d’esistenza. Ci si riferisce a quello che il dettato costituzionale, all’art. 41 Cost., individua come diritto (libertà) di iniziativa economica[1] e che risulta l’imprescindibile risposta giuridica alle dinamiche del mercato[2]. Ciò nella convinzione che il fine della concorrenza sia «di assicurare il trionfo del più degno economicamente» poiché proprio la competizione tra imprenditori costituisce un criterio per la scelta del migliore che viene affidata al giudizio dei consumatori promuovendo il progresso economico[3].

Poiché la libertà qui richiamata (sia nella sua prospettiva organizzativa quale “libertà di accesso ai mezzi di produzione”, sia, soprattutto, nella sua accezione dinamica di “accesso al mercato”) contiene in sé un’innegabile tendenza all’«autofagia»[4], l’ordinamento riconosce la necessità di impedire fenomeni simili per cui detta dei limiti alla stessa (che individua nei principi generali espressi agli artt. 41, 2° e 3° co., 43 Cost.) e ne disciplina l’esercizio (con la normativa richiamata) attraverso il rapporto costante con la regolamentazione comunitaria.

Tornando dunque all’art. 2598 c.c., i nn. 1 e 2 delineano una serie di ipotesi tipiche e i rapporti di questi con la clausola generale posta al n. 3. In specie, al n. 1 vengono disciplinate le c.d. fattispecie confusorie, caratterizzate da atti “idonei a produrre confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”. Viene tutelata l’attività d’impresa nella sua funzione distintiva garantendo che sia rispettata la possibilità di identificare la stessa come fonte della produzione di beni e servizi rispetto a comportamenti che ingenerino equivoci circa la provenienza dei prodotti provocando uno sviamento della clientela. Le ipotesi delineate da questa fattispecie sono: l’adozione di nomi e segni distintivi altrui e l’imitazione servile.

La prima disposizione citata è evidentemente posta da un lato al fine di rafforzare la disciplina in materia di segni distintivi tipici (in particolare di ditta e insegna, artt. 2563 ss. e art. 2568 c.c.) e al contempo fondare la tutela dei segni atipici, (come ad es. del marchio di fatto e della ditta “irregolare”) in relazione a quanto previsto dall’art. 2, 4° co., c.p.i., ove è prevista la protezione anche per “i segni distintivi diversi dal marchio registrato”.

Rispetto quindi ai segni tipici, viene fatta salva dalla norma l’applicabilità della disciplina di questi, e ne viene quindi richiesto un uso legittimo e la non confondibilità con altri segni. In particolare, quest’ultimo requisito viene pacificamente indicato come un “illecito di pericolo”[5], poiché non è necessario che la confusione si verifichi, ma che la condotta sia idonea a creare una situazione di confondibilità.

Al riguardo, la giurisprudenza si è recentemente espressa ritenendo che in caso di azione per concorrenza sleale sia imprescindibile l’accertamento sulla confondibilità dei prodotti e sulle modalità in concreto utilizzate per l’adozione di un segno in conflitto, ciò diversamente da quanto avviene in materia di marchio d’impresa, che avendo natura reale non presuppone tale tipo di analisi e viene tutelato come bene assoluto sulla base della confondibilità dei marchi[6]. L’accertamento avviene comunque in via sintetica in relazione all’impressione d’insieme suscitata nel consumatore e non in via analitica. Al di là del caso limite di uso di marchio identico per i quali sono evidenti i profili di lesione, è possibile determinare la confondibilità potenziale in riferimento alla clientela e al settore merceologico.

Per quanto attiene invece ai segni atipici, la giurisprudenza è conforme nel non consentire che un’impresa utilizzi il marchio di fatto di una concorrente nella propria pubblicità sia ai sensi dell’art. 2, 4° co., c.p.i., sia ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c. Ritenendo operante in via analogica la disciplina dell’insegna (art. 2568 c.c.), la giurisprudenza riconosce la tutela del domain name in quelle ipotesi in cui sia dotato di autonoma capacità distintiva e non ingeneri confusione, costituendo, lo stesso, segno distintivo atipico. In quanto tale rappresenta il luogo, ancorché virtuale, in cui è possibile per l’imprenditore incontrare un cliente e concludere un contratto.

Ai fini dell’accertamento del preuso, rispetto all’utilizzazione di terzi, la giurisprudenza ha ritenuto di poter considerare probante la registrazione del domain name presso la Registration Authorithy (inde R.A.); mentre non ha ritenuto (con una certa contraddittorietà) di poter fondare sulla stessa l’attribuzione di diritti, anche se la registrazione può integrare gli estremi della lesione, a seconda dei casi, del diritto al nome, o della concorrenza sleale, o della legge marchi.

In particolare, è stata riconosciuta l’astratta possibilità per il terzo di registrare presso la R.A. come proprio domain name il marchio di altro operatore economico con funzione distintiva autonoma se non ingenera, quindi, confusione nella medesima categoria di consumatori. Ma l’uso di un marchio che ha rinomanza come domain name, o all’interno di un sito per prodotti o servizi non affini a quelli del titolare del marchio, costituisce comunque lesione dei diritti del titolare del marchio poiché provoca un vantaggio immediato consistente nel ricollegare l’attività che avviene nel sito o in esso pubblicizzata a quella del titolare del marchio, di cui viene sfruttata, con indebito vantaggio, la notorietà, e questo in quanto il mercato dove operano le due società (l’una titolare del marchio, l’altra del domain name) è il medesimo, ovvero quello della pubblicità via internet.

Per quanto invece attiene alla c.d. “imitazione servile”, seconda ipotesi individuata al n. 1 dell’art. 2598 c.c., poco attiene alla tematica dei nomi a dominio, inquanto essa è rappresentata dalla pedissequa riproduzione della forma esteriore (quindi fisica e non digitale) del prodotto del concorrente tale da ingenerare confusione. E in giurisprudenza si intende per forma esteriore l’apparenza individuante il bene imitato.

Lo scenario appena descritto e positivizzato dal legislatore è stato travolto in epoca contemporanea dall’avvento della rete Internet che, offrendo maggiore facilità e immediatezza nella comunicazione con il consumatore, ha interessato inevitabilmente il mercato e le pratiche commerciali ad esso funzionali. In effetti, la maggiore diffusione dei social network come strumento imprescindibile utilizzato dalle aziende per fini commerciali e/o promozionali, ha fatto assumere alle pratiche commerciali aspetti del tutto innovativi, sconosciuti rispetto a qualche anno fa.

Grazie allo sviluppo del digitale, infatti, le aziende hanno potuto ampliare in maniera esponenziale i confini geografici di riferimento, con possibilità di raggiungere un pubblico sempre più ampio e diversificato. Di contro, ciò ha esposto le imprese ad una concorrenza prima inimmaginabile, abbattendo gli spazi fisici e dando risalto mondiale ad aziende che prima erano solo realtà locali.

In tale scenario, il marchio d’impresa ha assunto un’importanza fondamentale per poter distinguere le aziende e i loro prodotti, in un mercato ormai divenuto globale. Pertanto, il brand (inteso unitariamente come il nome, il logo e il domain name), non può più essere considerato un aspetto marginale, assumendo al contrario, un ruolo primario che deve essere allo stesso tempo promosso e tutelato.

Questa rivoluzione commerciale, se da un lato ha favorito il commercio, dall’altro ha, per forza di cose, determinato il moltiplicarsi di fattispecie illecite. Se pur in un primo momento si pensasse che il cyberspazio non dovesse sottostare alle disposizioni di legge volte a tutelare il mercato, oggi è pacifico che le aziende debbano rispettare le regole della concorrenza anche quando operano nel web.

In assenza di una normativa ad hoc per ogni fattispecie che delinei i caratteri essenziali di una pratica concorrenziale illecita, l’art. 2598 c.c. assurge senza dubbio a tutela generale delle aziende anche qualora operino nel mercato digitale. Infatti, ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c., come già indicato nel capitolo precedente, la legge italiana considera atto di concorrenza sleale usare nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, imitare servilmente i prodotti di un concorrente o compiere con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.

Parimenti, al numero 3 del suddetto articolo si stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chi si avvale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

Moltissime sono le pratiche illecite di uso non autorizzato di marchi altrui, le quali vanno dal registrarli come nome a dominio (cyber squatting o domain grabbing) e l’utilizzarli come keyword nei motori di ricerca (meta-tag), inserire nel proprio sito dei collegamenti ipertestuali che consentono il passaggio ad un altro sito (linking), inserire nella propria pagina, la pagina web altrui all’interno di una cornice generando confusione nell’utente circa la corretta provenienza delle informazioni pubblicate (framing).

In considerazione del moltiplicarsi dei fenomeni di concorrenza sleale attuati tramite il web e della quasi totale assenza di normativa specifica volta ad impedire tali pratiche, appare di fondamentale importanza che le aziende si tutelino preventivamente da tali condotte scorrette, così da evitare uno sviamento di clientela e onerose attività giudiziarie dall’esito incerto.

Una buona pratica può sicuramente essere quella di registrare il proprio marchio non solo come marchio figurativo ma anche come marchio letterale in modo rafforzare la tutela ed impedirne l’utilizzo scorretto (sia come riproduzione grafica che letterale) da parte di terzi non autorizzati. Allo stesso tempo, è consigliato porre in essere preventivi ed economici accorgimenti, che potranno scoraggiare i terzi dal porre in essere comportamenti sleali. Ad esempio, si potrà valutare la registrazione di un portafoglio di nomi a dominio simili al proprio e con diverse estensioni (.it, .com, .org, ecc.). Si potranno registrare domini o individuare meta-tag che contengano degli errori in maniera tale reindirizzare al corretto sito anche in caso di errori di battitura, nonché inserire note legali all’interno del proprio sito con l’espresso divieto di framing.

 

 

 

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[1] P. Spada, Diritto commerciale, vol. II, CEDAM, Padova, 2006, p. 177.
[2] G. Alpa, La c.d. giuridificazione delle logiche dell’economia del mercato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 725.
[3] T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, Milano, 1955, p. 116.
[4] P. Spada, Diritto commerciale, cit., p.178.
[5] A. Vanzetti, V. Di Cataldo. M.S. Spolidoro, Manuale di diritto industriale, cit., 2021, p. 47.
[6] Cass. n. 6193 del 2008, in Diritto&Giustizia, Il raggio di protezione industriale del marchio debole nell’esame del rischio confusorio, nota di Vincenzo Iaia del 13/05/2021.

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