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Sta per finire un anno, ma non finiscono le guerre che lo hanno segnato nel mondo e in Europa, anzi. Il timore è che questi conflitti proseguano, qualcuno anche aggravandosi se nuove iniziative diplomatiche non prenderanno il posto delle armi, finora protagoniste.
L’Unione Europea non figura purtroppo ad oggi tra gli attori globali intervenuti con un ruolo sulla scena mondiale e non è di grande consolazione che abbia comunque fatto meglio dell’ONU e sia stata presente più di altri sul fronte degli aiuti umanitari, tanto in Ucraina come nel Medio Oriente.
Un’occasione importante le era offerta a giugno con le elezioni del Parlamento europeo per portare la pace al centro del dibattito pre-elettorale e darne chiara traduzione con il voto nelle urne. Non è andata proprio così, con forze politiche di limitata visione strategica e preoccupate di non perdere il consenso delle proprie clientele elettorali, scarsamente sensibili ai problemi del mondo e illuse di poterli disgiungere da loro interessi più immediati.
Ancora una volta il dibattito elettorale è stato prevalentemente assorbito dalla competizione nazionale e il voto vissuto come un test per i rapporti di forza interni ai singoli Paesi: è quanto avvenuto un po’ ovunque, con maggiore evidenza nei due Paesi guida dell’UE, Francia e Germania.
Il voto francese ha registrato una sconfitta per il presidente Macron, con la conseguente crisi politica dalla quale sarà difficile uscire; in Germania il risultato elettorale ha contribuito ad accelerare il logoramento della coalizione al governo, provocando elezioni politiche anticipate il prossimo 23 febbraio.
In questo contesto era sembrata positiva la riconferma della maggioranza politica alla guida nel Parlamento europeo nelle scorse legislature e la nuova configurazione istituzionale UE decisa dal Consiglio europeo con la candidatura di Ursula von der Leyen per un secondo mandato alla presidenza della Commissione europea, in parte bilanciata dalla presidenza del Consiglio europeo affidata al socialista portoghese Antonio Costa.
Si è capito presto quanto fossero instabili i nuovi equilibri politici, con la forte curvatura a destra del Partito popolare europeo, cavalcata senza troppe esitazioni dalla riconfermata presidente della Commissione con il coinvolgimento, nel nuovo collegio dei commissari, di rappresentanti della destra, in particolare di quella italiana. Per la verità una conclusione che non avrebbe dovuto troppo stupire per chi avesse in mente le ormai disinvolte ambiguità di Ursula von der Leyen e, più ancora, la forte maggioranza di governi nazionali conservatori o di destra, veri “grandi elettori” dei Vertici istituzionali UE.
Sono gli stessi governanti che nella passerella del Consiglio europeo della settimana scorsa hanno sfiorato, senza lasciare il segno, i problemi di mezzo mondo, salvo concentrarsi – alcuni di loro con Ursula von der Leyen – su ulteriori misure per frenare i flussi migratori, mettendo a rischio lo Stato di diritto, come sta avvenendo con la sospensione delle procedure di asilo all’indomani della crisi siriana, una ferita recentemente denunciata da un inascoltato presidente Mattarella.
Sarà importante adesso valutare il nuovo programma di lavoro della Commissione e le priorità politiche annunciate, già sapendo che tra queste figureranno l’urgenza di una politica comune di difesa e sicurezza con i relativi costi finanziari in forte aumento, una rimodulazione della coraggiosa politica ambientale della scorsa legislatura, il rilancio dell’economia nel quadro di una grave crisi industriale e la ripresa di politiche commerciali che, come nel caso dell’accordo con il Mercosur, puntano a impedire all’UE di essere stretta in una tenaglia tra gli Stati Uniti di Trump e la Cina di sempre, con il baricentro del mondo che si sta spostando nell’area dell’Indo-Pacifico, abbandonando quello dell’area atlantica.
Tutto questo senza dimenticare i conflitti in corso ai confini dell’Europa che ancora molto peseranno sul nostro futuro.
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