Gli itinerari de L’AltraMontagna: la solitudine del Mont Dolent, montagna di confine dagli orizzonti infiniti

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Ci sono montagne capaci di suscitare emozioni e aspirazioni particolari, quasi ciascuno ne ha almeno una. Nomi che rimbombano nella testa, che a volte sembrano sparire, persi nelle sinapsi della quotidianità, per poi tornare come un’eco lontana, riaffacciarsi alla coscienza vigile. Esercitano un forte richiamo, come una calamita attira la limatura di ferro. Montagne a volte appartate, che per abbracciarne anche solo un versante devi muoverti, salire, camminare, e nemmeno poco. Una di queste cime, nel mio immaginario, è il Mont Dolent, che si alza superba, severa, piramidale, fino a 3819 metri di quota in fondo alla Val Ferret, sopra Courmayeur, estremo limite orientale del massiccio del Monte Bianco. Dalla sua vetta, che segna il confine tra Italia, Svizzera e Francia (in realtà il triplice confine passa 150 metri in linea d’aria a nordovest), verso nord si allunga la dorsale Tour Noir-Argentière-Aiguilles du Tour, mentre a sud, oltre il Grépillon e l’Allobrogia, si aprono i due colli di Ferret, Petit e Grand. Ai suoi piedi, invece, masse glaciali turbolenti, seppur in costante e drammatico ritiro, dal grande Glacier d’Argentière, sul versante francese, al tormentato Glacier de Pré de Bard, che scende verso la Val Ferret italiana, ai piccoli e appartati Glacier du Dolent e Glacier de l’A Neuve, in territorio elvetico. La cima apre una prospettiva incredibilmente ampia e inusuale, in primis sul Monte Bianco, dal complesso principale alle Grandes Jorasses, fino alla Leschaux, dal Triolet all’Aiguille Verte e all’Argentière, e poi gran parte dei monti valdostani, dal Gran Paradiso al Rosa, al Grand Combin. Impossibile darne conto con le parole, bisogna salirci. Cosa tutt’altro che banale, perché il Dolent si fa desiderare, in versione estiva come anche in quella primaverile, quando si possono usare gli sci. Il contrasto con la frequentata Val Ferret, inoltre, rende la salita a questa montagna ancora più affascinante. In estate, infatti, la celebre valle è presa d’assalto da migliaia di gitanti ed escursionisti, da tutto il mondo, che passeggiano all’ombra delle Grandes Jorasses, sulla strada o lungo facili sentieri tra i larici e per grandi pascoli, affollando i rifugi sulla dorsale meridionale. In inverno, la valle diventa una lunga pista di fondo, affiancata dalla strada innevata percorsa da altrettante migliaia di persone che si godono, dal basso, lo spettacolo dei Quattromila imbiancati. C’è poi la primavera, quando la Val Ferret torna, per qualche settimana appena, un regno silenzioso. Ed è proprio in questa stagione che si può salire sul Dolent, sci ai piedi.

Il bivacco Florio (2810 m) e, dietro, il Mont Dolent. © Kay74

Ai confini del mondo
Ecco perché, quando al telefono mi sento chiedere “Andiamo sul Dolent?”, il mio silenzio è già una risposta. Affermativa. Pochi preparativi, un’occhiata al meteo e alle condizioni della neve. La coincidenza è quasi astrale, tutto combacia alla perfezione. Superiamo Courmayeur, che in questa stagione appare sonnacchiosa, in attesa della sveglia estiva. Saliamo a Planpincieux, dove la strada è chiusa per la neve. La pista di fondo è ancora praticabile, e qualche locale sta scivolando sui binari. Avremmo potuto attendere ancora qualche settimana e sperare nello sgombero della rotabile fino ad Arnouva, risparmiando quasi due ore di marcia e 200 metri di dislivello, ma tant’è. Risaliamo lentamente la valle, ancora indecisa se concedersi al disgelo o trattenere gli ultimi scampoli dell’inverno. Il silenzio, già qui, è quasi totale, e mentre dall’alto ci sorvegliano le Grandes Jorasses, arriviamo ad Arnouva, poi transitiamo appena sotto il rifugio Elena, chiuso, da dove si inizia a fare sul serio. Dobbiamo infatti salire i ripidi pendii che conducono al Petit Col Ferret. In estate la traccia passa su terreno detritico e instabile, tanto che ormai si preferisce portarsi prima al Grand Col Ferret e poi traversare. Con gli sci, invece, riusciamo a procedere più direttamente, con strette e continue svolte, e con un sol balzo, mentre la vista si apre sulla lunga valle appena percorsa e sulle severe cime che la chiudono a nord, superiamo i 500 metri di dislivello che ci separano dal valico. La neve tiene, è ben trasformata, e ci lascia presagire una bella discesa. Non raggiungiamo il passo, ma pieghiamo a sinistra e con un lungo traverso, a tratti esposto ma su neve buona, passiamo sotto la cresta meridionale della Punta Allobrogia e, tra grandi massi, raggiungiamo la nostra meta di oggi, il bivacco Florio, a 2810 metri di quota. Quello “nuovo”, dalla forma squadrata, mentre quello “vecchio”, a semibotte, dista poche decine di metri. Vecchio e nuovo assumono qui una valenza strana, perché entrati nel piccolo bivacco siamo proiettati indietro di decenni, si respira un’aria antica, severa, autentica. E si respira freddo, molto freddo. Fino al calar del sole conviene stare fuori, per accumulare quel poco di tepore disponibile, ma soprattutto per godere del selvaggio panorama che si offre allo sguardo. Poi dentro, una cena frugale, tanta neve da sciogliere per riempire i thermos di tè, e poi sotto le coperte, cercando di riposare qualche ora in vista della salita di domani. Freddo, sì, molto freddo, ma l’esperienza di dormire in quota, in un luogo remoto come questo, unici bipedi nel raggio di chilometri, circondati da una montagna aspra, incredibilmente selvaggia nella sua bellezza, non ha davvero pari. E quando suona la sveglia, vorresti rimettere le lancette indietro, non per dormire ancora, ma per rivivere quelle strane sensazioni prodotte da una notte in bivacco in luogo che, oggi, pare essere ai confini del mondo.

Sua maestà il Bianco. In primo piano, l’Aiguille de Triolet e la cresta Talèfre-Leschaux. © Kay74

Ghiaccio, neve… Cima!
Colazione, zaino, scarponi, imbragatura, corda a portata di mano, un’ultima occhiata alle pelli, e ci rimettiamo in marcia, mentre la prima luce rischiara l’orizzonte alle nostre spalle. Le frontali sono ancora utili, mentre ci dirigiamo, su terreno morenico, verso il Glacier de Pré de Bard. Non serve legarsi, i crepacci sono ancora ben chiusi, e nonostante non sia presente alcuna traccia, riusciamo a salire agevolmente, prima con direzione ovest-nordovest, passando sotto alcune fasce rocciose, verso il centro del ghiacciaio, poi volgendo a nord, su terreno decisamente più ripido. Una breve pausa, ci guardiamo, e ridendo decidiamo di spegnere le frontali, visto che la luce del nuovo giorno ha ormai inondato il bianco che ci circonda. Saliamo ancora, inebriati da tanta bellezza, la pendenza si accentua, i crepacci ci obbligano ad alcune deviazioni, ma raggiungiamo senza problemi l’ampia sella ai piedi della cresta nordorientale del Mont Dolent. Altra pausa, siamo a circa 3600 metri, o almeno così dicono l’altimetro e la cartina, e dobbiamo togliere gli sci e calzare i ramponi. Il pendio-canale soprastante è davvero ripido, battiamo la traccia, ma per fortuna la neve tiene e la piccozza ha un’ottima presa. Sbuchiamo sulla cresta e veniamo inondati dal sole, quasi accecati, dalla luce e dal panorama. Eravamo troppo concentrati sulla salita per ammirare l’infilata di cime e di valli che si distende tutto intorno. Procediamo sul filo di cresta, niente di troppo difficile, alternando neve dura e facili passaggi su roccia. L’esposizione è totale, su entrambi i versanti, anche arrivando sulla cima, dove la statua della Madonna sembra aspettarci, magari per una parola di conforto e una pacca sulle spalle. Invece no, rimane immobile e silenziosa, così come lo siamo noi, immobili, in silenzio, solo una stretta di mano a suggellare questa nostra piccola grande impresa. Immobili, in silenzio, a perdere lo sguardo tutto intorno. Non troviamo le parole per commentare lo spettacolo, forse non vogliamo trovarle. Forse meglio così. Uno sguardo, e a malincuore, con quella strana tristezza che conosciamo bene, ci avviamo in discesa. Raggiungiamo gli sci, e la tristezza svanisce quando iniziamo a inanellare le curve sulla splendida neve del ghiacciaio. Entusiasmo, piacere, anche quando ripassiamo dal bivacco, dove ci concediamo una meritata sosta al sole, recuperando il poco materiale che abbiamo lasciato qui. Poi via, ancora in discesa, su neve un po’ pesante ma ottimamente trasformata, tanto che i ripidi pendii sotto il Petit Col Ferret diventano anch’essi un piacere immenso. La fatica si fa sentire atterrando sul fondo della Val Ferret, quando non ci resta che cercare di far scorrere il più possibile gli sci sulla strada innevata. Stanchi, sì, ma pieni dell’entusiasmo di questi due giorni, e con quella strana malinconia che scaturisce dalla consapevolezza di aver lasciato lassù qualcosa, per sempre. Mi volto e guardo il mio socio: quando torniamo a riprendercela?

Prime curve in discesa dalla cima. © Kay74

 

IL PERCORSO
Regione: Valle d’Aosta
Partenza: Arnouva (1769 m)
Arrivo: Mont Dolent (3819 m)
Accesso: si risale tutta la Valle d’Aosta fino a Courmayeur, proseguendo poi per la Val Ferret, in auto fin dove possibile; in stagione avanzata, o con scarso innevamento, la strada può essere aperta fino al suo termine, ad Arnouva; in caso contrario si deve lasciare l’auto a Planpincieux, aggiungendo 200 metri di dislivello e circa 2 ore di cammino
Dislivello: 2050 m
Durata: 6/8 h
Difficoltà: OSA (ottimo sciatore alpinista); corda, piccozza e ramponi

 

Immagine di apertura: panorama dalla cima del Mont Dolent (3819 m). © Kay74





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