UISP – Genova – Terza ed ultima parte dell’intervista a Maura Fabbri

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Terza ed ultima parte dell’intervista a Maura Fabbri

TRASCRIZIONE INTERVISTA

Giunti all’ultimo appuntamento con Maura Fabbri, nel chiudere il suo racconto sulla carriera sportiva e lavorativa, passiamo a parlare anche di altri temi che ci legano con forza al progetto SIC, come quello delle discriminazioni. Un termine che non dovrebbe fare parte del mondo dello sport.

 

“L’esperienza di Torino ha fatto sì che lentamente abbandonassi il calcio femminile e mi dedicassi totalmente a quello che era il mio futuro: essere nel settore dell’abbigliamento ed essere dirigente in aziende importanti, perché dopo l’esperienza della Mix & Match sono passata al gruppo Versace di Alma, a Milano. Tutti questi passaggi li ho fatti soltanto per crescere e per avere un futuro migliore. Avevo delle mie assistenti che mi seguivano, che ho portato in tutti i miei passaggi di carriera, e i miei passaggi sono stati equivalenti ai loro, nel senso che la mia crescita è stata fatta in funzione anche della loro crescita.

 

Sono stata poi a Cattolica con Alberta Ferretti e Moschino. La prima distribuzione di Moschino l’ho creata io, la prima sfilata di Moschino a Milano è stata un successo inimmaginabile. I clienti, da me invitati, praticamente si scapicollavano per poter entrare e vedere la stilata. Insomma, è stato un crescendo, sino a che ho avuto di nuovo una proposta di creare una distribuzione a Vicenza, con un marchio che era già esistente, che si chiamava Henry Cotton’s. Questo marchio era solo maschile, però a me hanno dato la possibilità di creare questo spazio femminile. Anche quella è stata un’impresa, un successo, che ancora oggi c’è, esiste, e che noi rappresentiamo in Liguria con lo studio di mia sorella, chiamato Studio 3”.

 

Un tema tabù in ambito maschile, molto meno in quello femminile, anche a livello anche calcistico, sportivo, è il tema dell’omosessualità. Si parla di un tema di inclusione e di coesione sul quale il calcio femminile è molto più avanti e può essere anche un esempio per la parte maschile dello sport, e più in generale per lo sport. Se noi in questo progetto dobbiamo parlare di inclusione e coesione, lo sport in certi ambiti ci dà degli esempi assolutamente positivi. “Io sono sempre stata una persona molto libera di testa – spiega Maura Fabbri – Non sono omosessuale, ma non ho mai avuto nessun tipo di problema ad accettare tante amiche, del calcio in particolare, che convivono, che vivono da più di 20/25 anni assieme, per cui questo non mi disturba assolutamente. Anzi, trovo che ogni persona debba affrontare la sua sessualità in maniera normale, come la sente, come la vuole vivere. Come sempre, credo che ci siano pochi casi nel calcio maschile. Nelle donne ci sono casi e ci sono sempre stati, per cui non è che sia una cosa nuova. Ci sono sempre state, ci sono, non credo che sia di disturbo ad alcuno essere omosessuale. L’importante è rispettare gli altri, rispettare sé stessi, vivere la propria vita senza esagerazioni”.

 

Mentre giriamo per la casa sulle alture di Bavari, sul tavolo spicca la foto dell’ACF Genova prima del fischio d’inizio della finale scudetto. Emblematiche le immagini presenti nel video per capire il seguito che le giocatrici avevano a loro supporto. Tutti tifosi paganti. Maura Fabbri ci indica, in basso a sinistra, Albertina Rosasco, che fece il gol della vittoria del primo scudetto a Pisa.

 

Maura Fabbri è stata una rapida ed eclettica centrocampista, con una deviazione nel ruolo di terzino sinistro solo un campionato europeo di Torino. “In quelle gare sono stata una delle migliori in campo. Ero veloce, sapevo praticamente giocare a calcio e correvo, andavo avanti e indietro per tutto il campo. Fu una bella esperienza anche quella, con più di 20.000 persone a vedere la partita. A San Siro, con calcio di inizio preceduto dalla performance di Celentano, ci sono state più di 30.000 persone. E già a Genova avevamo mediamente 3.000 persone allo stadio ogni partita. Quando giocavamo in casa, quello era il nostro pubblico. Pubblico che è difficile ritrovarne oggi su molti campi”.

 

Non c’è niente, in casa di Maura Fabbri, che non racconti la sua storia. Spuntano centinaia di foto, album dedicati alle su esperienze, libri che documentano la genesi e lo sviluppo del calcio femminile in Italia e nel mondo. La parte finale dell’intervista si sposta fuori, dove la temperatura da invernale si è anticipatamente tramutata in primaverile. Lì c’è l’orto, l’altra grande passione di Maura Fabbri, da cui si vedono i campi della vicinissima San Desiderio. Inevitabile, dunque, che il nostro ragionamento torni sul calcio. Questa volta sul ruolo che hanno gli allenatori e le allenatrici (Maura lo è del Sant’Eusebio SSD) nel veicolare i valori dell’integrazione, cercando di far sì che l’integrazione non diventi “standardizzarsi” su pratiche che, con lo sport e la salute, spesso hanno poco a che fare, soprattutto se si eccede.

 

“Prima di tutto, quello che posso dire è che le società devono insegnare agli allenatori ad essere allenatori. Ad essere allenatori nel contesto generale, nel senso umano, educativo e di integrazione e di rispetto. Perché, purtroppo, io che frequento le società, i campi sportivi, vedo delle cose che personalmente non accetto volentieri. Vedo ragazzi che escono dal calcio, fumano, bevono birre, non hanno nessuno che dica loro qualcosa che invece, personalmente, io direi perché non va bene. In questo caso trovo che non ci sia un grosso futuro.

 

Società e Federazione dovrebbero essere più rigide. Purtroppo è una parola che non viene accettata perché anche un po’ di rigidità può essere utile per crescere e per far del bene a questi ragazzi, per portarli sulla strada giusta e non sulla strada sbagliata. E vediamo che molti giovani oggi non sono sulla strada giusta. Io sono stata un po’ una puritana nello sport, in tutto lo sport. Mi piace tutto, seguo tutto. Mi piace il tennis, a cui ho giocato. Qualsiasi tipo di sport per me è importante ed è curioso. Però vedo che in altri ambiti, non del calcio, ci sono delle regole un po’ più drastiche e sono molto più rigidi in certe situazioni. Già il fatto solo che un ragazzino voglia per forza che il genitore lo porti a giocare a calcio, magari perché ci può essere un futuro di un certo livello, ma senza sapere e senza dare indicazioni e obiettivi, non trovo che sia giusto. C’è sempre quel 1% che dal figlio pretende molto di più e lo pretende mettendolo anche contro i suoi compagni, dicendo che assolutamente deve emergere, deve essere più bravo, deve fare questo, deve fare quell’altro, senza guardare al fatto che c’è un gruppo e che si è la stessa comunità che fa la stessa cosa. Questo trovo che sia sbagliato. E io do colpa, in certe situazioni, alla dirigenza e alla poca attenzione che si ha su questo tipo di argomento”.


pubblicato il: 12/03/2025 | visualizzato 22 volte



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