Alla sfida delle energie rinnovabili il mercato ha già detto sì

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Stop agli investimenti sulle energie sostenibili e via libera alle produzioni “sporche” e all’estrazione furibonda di combustibili fossili. Se qualcuno sperava che il cordone di sicurezza politico-economico impedisse a Donald Trump di tradurre in realtà la propria brutale visione del mondo, ha sbagliato. Anche perché contro quel cordone lui e i “neofeudatari digitali” hanno scatenato un “pogrom” feroce, che ammette solo teste allineate come birilli e cancella ogni riferimento alla cura dell’ambiente nella stessa ricerca scientifica.

Le conseguenze, in termini di emissioni globali, sarebbero già devastanti, se la nuova corsa all’oro nero fosse limitata agli Stati Uniti. Ma è chiaro che vale per ogni Paese che abbia qualche barile di greggio, o metano, sotto i piedi. Agostino Re Rebaudengo, 30 anni fa, ha fondato Asja Energy, che produce solo energia rinnovabile: biomasse, biometano, eolico, fotovoltaico, microcogenerazione, efficienza. Imprenditore di formazione economica, è convinto che il “drill, baby drill” farà male a tutti, ma prima di tutto all’America: “Le oil company temono che negli Usa si possa generare un eccesso di offerta e un crollo dei profitti. Oltretutto, i Paesi OPEC potrebbero reagire, aumentando le estrazioni e innescando una guerra dei prezzi, con effetti geopolitici imprevedibili”.

I negazionisti gridano che l’emergenza climatica è un’invenzione per favorire i produttori di energie alternative e delle relative tecnologie, come la Cina. Che cosa risponde?

“Mi ricordano ‘Don’t look’ up’, con Leonardo Di Caprio. Ignorare la catastrofe che incombe – nel film, l’asteroide, nella realtà, la crisi climatica – non ci salva dai suoi effetti. Verrebbe da dire, ‘chi vivrà vedrà’, ma stavolta è in gioco la nostra stessa sopravvivenza. Il riscaldamento è inequivocabile, più veloce di quanto ci saremmo potuti immaginare. Nel 2021 si credeva che la soglia degli 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale l’avremmo raggiunta non prima del 2040. Nel 2023 la stima si è accorciata al 2030. Nel 2024, per la prima volta, è stata superata, come ha certificato Copernicus”.

Qualche tempo fa si diceva che, a un certo punto di sviluppo, le tecnologie verdi sarebbero diventate più convenienti. Nella vulgata trumpiana anche questa è una bufala.

“È il mercato a darci la risposta. Nonostante il dietrofront rispetto agli impegni di sostenibilità di alcuni grandi fondi e istituti finanziari, nel 2024 gli investimenti in energia pulita hanno raggiunto la cifra mondiale record di 2.100 miliardi di dollari, il doppio di quanto investito nei combustibili fossili. Anche sulla competitività delle diverse tecnologie si fa confusione. Chi afferma che non conviene accelerare sulle rinnovabili invoca spesso il principio della neutralità tecnologica, che suggerisce di affidarsi non a un’unica soluzione, ma un mix, in base alla loro maturità, nel ridurre efficacemente le emissioni. Ma la tecnologie più competitive, oggi, sono senza dubbio quelle per produrre energie rinnovabili. Dunque, proprio in nome della neutralità tecnologica, oltre che per la necessità di sicurezza e indipendenza energetica, dovremmo dare priorità al loro sviluppo”.

Nell’Unione Europea il gas determina il prezzo di tutte le altre energie. In questo modo i produttori di rinnovabili hanno potuto compensare gli investimenti iniziali. Da anni si propone una riforma che crei un mercato separato per le rinnovabili: questo le renderebbe molto più convenienti, e allettanti. A Bruxelles se ne parla da anni, ma non si fa nulla. Perché?

“Esistono già meccanismi che consentono il disaccoppiamento, ad esempio le aste competitive e i contratti d’acquisto a medio e lungo termine valorizzano l’elettricità rinnovabile ad un prezzo sganciato da quello del gas. Ne andrebbe accelerata la diffusione”.

Ursula Van Der Lyen conferma che l’Ue non rinuncerà al Green Deal, ma lo scenario non la asseconda. Alcuni dei 27 hanno governi che parteggiano per il tycoon Usa, altri sono politicamente in bilico e qualcuno potrebbe scegliere di andare da solo a trattare con Trump sui dazi, rischiando come Zelenski di essere preso a schiaffi in mondovisione. Come uscirne?

“Dando una risposta unitaria ai giochi di forza avviati dagli Usa e costruendo alleanze strategiche. E’ vero che il Green Deal incontra resistenze interne, ma i Paesi nordici e anche la Francia, la Spagna e la Germania restano impegnati sulla transizione. Peraltro, la Commissione Europea ha appena annunciato il ‘Clean Industrial Deal’, che tra i suoi obiettivi chiave ha quello di aumentare la produzione made in Europe di tecnologie per la sostenibilità e rilanciare la competitività industriale. Abbiamo carte da giocare per difenderci dal ricatto americano e persino contrattaccare. A livello commerciale siamo la seconda economia mondiale, un mercato chiave per le multinazionali Usa. Loro hanno ‘l’Inflation Reduction Act (IRA)’ per attrarre investimenti e sovvenzionare la transizione. L’Europa può competere con il ‘Net-Zero Industry Act’, il ‘Clean Industrial Deal’ e il ‘Fondo per la Sovranità’. Un comune denominatore con altri Paesi potrebbe disegnare nuovi equilibri. Il Canada e il Messico sono esposti al protezionismo Usa e potrebbero voler collaborare con noi per bilanciarlo. Bruxelles ha già accordi con il Giappone e la Corea del Sud e anche loro temono una guerra commerciale con Washington. Il peso della Cina e dell’India come partner economici dell’Europa potrebbe aumentare, qualora gli Stati Uniti insistessero con la guerra dei dazi”.

L’Italia chiede di rinviare la scadenza del 2035, quella prevista per dismettere i motori a combustione termica e ridurre del 55 per cento (entro il 2030) le emissioni di gas serra. Invece altri Paesi europei, come la Francia, Spagna e soprattutto la Germania, dove pure l’automotive è in crisi, concordano nel mantenere il calendario. Eppure, uno studio del Teha Club Europe Ambrosetti chiarisce che il problema dell’auto italiana è la mancanza di progetti: su 2100 imprese intervistate, solo il 31 per cento investirà sull’elettrico. Quindi con una mano Roma chiede proroghe perché siamo in ritardo, con l’altra blandisce l’inerzia dell’industria. Che logica è?

“Non c’è. Come scrivevo già anni fa sul mio blog, così si danno solo segnali contraddittori, che complicano la pianificazione degli investimenti. C’è, invece, bisogno di un polso forte delle istituzioni nel mettere a terra i provvedimenti necessari con un orizzonte di certezza a lungo termine. L’elettrificazione dei veicoli è già adesso: dal punto di vista delle tecnologie per decarbonizzare è la scelta più conveniente e molte grandi case automobilistiche hanno annunciato piani per abbandonare gradualmente i combustibili fossili”.

Nella gara tra motore elettrico e tradizionale a chi emette di meno c’è chi invita a valutare l’intero ciclo di vita – produzione, operatività e smantellamento – del veicolo e delle sue componenti. Chi è in testa?

“Secondo una ricerca dell’autorevole osservatorio RSE, il veicolo elettrico, a parità di modello e di potenza, ha emissioni sempre nettamente inferiori. Anche solo con le rinnovabili al 40% del mix ibrido, nell’intero ciclo di vita, l’auto elettrica produce fino al 55% in meno di emissioni in CO2 equivalente rispetto all’auto a benzina e fino al 40% in meno rispetto al diesel. Aumentando la percentuale di rinnovabili nel mix, il margine cresce. Ancora più favorevoli all’auto elettrica sono i risultati di uno studio della Commissione europea. Credo sia doveroso considerare anche i danni alla salute. Da un Paese come l’Italia che da una parte detiene il record europeo di morti per inquinamento dell’aria e dall’altra ha assoluto bisogno di promuovere nuove opportunità di sviluppo per l’industria dell’auto, credo sarebbe lecito attendersi una netto sì all’uscita dai motori a combustione”.

Dopo quarant’anni di moratoria il governo italiano ha deciso di rilanciare le centrali nucleari a fissione, puntando, in particolare, sugli Smr, i cosiddetti microreattori modulari. Che ne pensa?

“Che difficilmente potranno offrire una soluzione strutturale. L’Italia ha bisogno sia di ridurre i costi dell’energia sia di aumentare l’indipendenza energetica. Ma non sappiamo bene quando gli Smr saranno pronti alla diffusione su larga scala, né quanto costerà l’energia elettrica che produrrebbero. Inoltre, c’è il nodo di dove localizzare gli oltre 100 Smr previsti. Il Cnr lo ha definito l primo dei problemi, perché il 95% della Penisola è a rischio idrogeologico. Infatti, dopo 30 anni di polemiche, non si è trovato un posto per il deposito unico nazionale delle scorie radioattive. Poi, c’è il nodo burocratico: se la questione delle aree idonee per gli impianti eolici e fotovoltaici va avanti da anni con un epilogo che rischia di rendere non idonea la quasi totalità del territorio italiano (e parliamo di impianti molto semplici, praticamente a rischio zero di incidenti), chissà che via crucis sarebbe trovare Regioni disposte a dare il benvenuto ai nuovi reattori nucleari”.

E la fusione nucleare, che promette quantità illimitate di energia gratuita?

“E’ una ricerca che dobbiamo portare avanti, ma ci vorranno ancora decenni per arrivare alla fase industriale”.

È stato il gennaio più caldo dell’era industriale. Possiamo permetterci di rallentare la transizione o significa perdere l’ultima occasione di evitare una catastrofe climatica capace di innescare dinamiche economiche e sociali incontrollabili?

“Sarebbe un grande errore, da ogni punto di vista. Negli ultimi 30 anni gli eventi climatici estremi hanno provocato danni all’economia mondiale per oltre 4.200 miliardi di dollari. Non si tratta solo di evitare maggiori costi, ma anche di cogliere enormi opportunità di sviluppo industriale e di crescita dell’occupazione. Per l’Italia raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione del RepowerEU significa attivare investimenti per oltre 300 miliardi nel solo settore elettrico e creare più di mezzo milione di nuovi posti di lavoro. Rallentare non conviene nemmeno agli Stati Uniti. ‘L’Inflation Reduction Act’ ha stanziato oltre 70 miliardi di dollari per finanziare l’industria della transizione e queste risorse sono state quasi tutte già allocate, creando centinaia di migliaia di posti di lavoro. Secondo alcune rilevazioni della Johns Hopkins University, un dietrofront si tradurrebbe in un danno economico per gli Usa e in grandi vantaggi per gli altri Paesi. Le aziende americane perderebbero fino a 50 miliardi di dollari in termini di mancati ricavi da esportazione e offrirebbero alle nazioni concorrenti fino a 80 miliardi di dollari di nuove opportunità di sviluppo. Quindi, per rendere l’America “great again” consiglierei di renderla “green again!”.



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