la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale

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La Cassazione, sez. VI, (Pres. Fidelbo, Giud. estensore D’Arcangelo), con ordinanza n. 9442 del 21 febbraio del 2025 (depositata il 7 marzo del 2025), con una motivazione assai articolata, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b), della legge 9 agosto 2024, n. 114, che ha abrogato l’art. 323 cod. pen. in riferimento agli articoli 11 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma, della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, altrimenti nota come Convenzione Merida, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116.
Orbene, si deve innanzitutto fare presente che, in codesta ordinanza, gli Ermellini hanno sollevato la suddetta questione ex officio e, quindi, senza che sia stata fatta richiesta in tal senso da nessuna delle parti.
Premesso ciò, nel procedere alla disamina dei tratti salienti, che connotano siffatto provvedimento, si analizzeranno questi, suddividendoli per argomento, incominciando da quello riguardante l’ammissibilità della questione. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia

Corte di Cassazione -sez. VI pen.- ordinanza n.9442 del 21-02-2025

1. L’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sull’abolizione dell’abuso d’ufficio


Per i giudici di piazza Cavour, la questione suesposta è ammissibile nella fattispecie in esame dal momento che un “controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può (…) risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto del ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite “alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione”[1], il che “determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”)”[2].
Orbene, per la Corte di legittimità, proprio l’evenienza appena enunciata “ricorre nel caso di specie”[3] posto che non si richiede da parte di questa Corte “il sindacato di costituzionalità su un caso di inattuazione originaria da parte del legislatore dei vincoli dagli obblighi internazionali, che non consente alla Corte costituzionale di surrogare l’inerzia del Parlamento, sovrano in materia di scelte di criminalizzazione, introducendo una nuova incriminazione, ma su un caso di inattuazione sopravvenuta di tali vincoli, che consente la reviviscenza della fattispecie di reato abrogata e, dunque, la riespansione della sua efficacia”[4].
Per i giudici di legittimità ordinaria, di conseguenza, in “questo caso, la Corte costituzionale non opera alcuna scelta di criminalizzazione, ma si limita a rimuovere la norma incostituzionale; l’effetto sfavorevole deriva dalla reviviscenza della norma precedente, posta dallo stesso legislatore, unica costituzionalmente conforme, perché rispettosa dell’obbligo sovranazionale”[5].
Allora, procedendo per gradi, per la Suprema Corte, una prima criticità argomentativa potrebbe trapelare dal fatto che il richiamo, compiuto dalla Cassazione alle pronunce summenzionate della Consulta, non riguarda le fonti del diritto sovranazionale latu sensu, ma unicamente quelle previste dall’ordinamento comunitario.
In effetti, per quanto riguarda la sentenza n. 28 del 2010, in quella occasione, “il giudice rimettente [aveva] posto un problema di conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost.”[6], mentre, nella sentenza n. 32 del 2014, si afferma chiaramente che, “se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione”[7], il “che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”[8].
Ebbene, ad onore del vero, perlomeno in relazione a questa seconda pronuncia, la criticità di cui sopra sembra essere meramente apparente, piuttosto che reale, dal momento che, come visto, la Cassazione chiarisce che vi sarebbero per l’appunto alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di incriminazione che, “depenalizzate” dal nostro legislatore domestico, ha comportato la violazione degli articoli 11 e 117, co. 1, Cost..
Pur tuttavia, anche tale approccio argomentativo, seppur formalmente ineccepibile, si presta a talune prima considerazioni di ordine critico.
La prima riguarda il fatto che, nel caso di specie, non si tratta tanto di un obbligo di criminalizzare una condotta a livello sovranazionale che è stato disatteso da una legge nazionale, quanto piuttosto di un obbligo di mantenere in essere un reato, previsto da una Convenzione internazionale, che viene meno per effetto di una norma prevista successivamente, alla firma di tale Convenzione, da parte di uno degli Stati firmatari di essa.
Ebbene, la domanda sorge spontanea: è la stessa cosa?
Questo è il problema che ritengo debba essere adeguatamente vagliato da parte della Consulta per verificare se effettivamente la giurisprudenza costituzionale, richiamata dal Supremo Consesso nell’ordinanza qui in commento, possa effettivamente rilevare nel caso di specie.
Ciò posto, va notato in secondo luogo che la medesima Corte di Cassazione individua l’epilogo decisorio, che un eventuale accoglimento potrebbe comportare, ossia la reviviscenza della norma incriminatrice abrogata, essendo sostenuto, nel provvedimento qui in commento, quanto segue: “L’eventuale declaratoria di incostituzionalità della disposizione che ha abrogato il reato di abuso di ufficio renderebbe (…) nuovamente punibili le condotte previste dall’art. 323 cod. pen. commesse sotto la sua vigenza, quale quelle di cui si controverte nel presente giudizio”[9], dovendosi al contempo escludere “dalla disciplina della successione delle leggi penali nel tempo e dall’applicazione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. le vicende di successione normativa determinate da dichiarazioni di illegittimità costituzionale delle norme succedutesi (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 (…))”[10].
Orbene, pur a fronte di tale arresto giurisprudenziale, non possono però sottacersi diverse pronunce, successive a questa decisione delle Sezioni unite, in cui gli Ermellini sono addivenuti a soluzione ermeneutiche di segno contrario, perlomeno in relazione all’asserita reviviscenza sostenuta nella fattispecie qui in esame.
In particolare, chi scrive si riferisce alla sentenza n. 24834 del 22/09/2016 (dep. il 18/05/2017), emessa dalla Sezione prima, in cui è stato diversamente asserito che “la declaratoria della illegittimità costituzionale (al pari della mancata conversione in legge) della norma abrogante la disposizione incriminatrice non è in alcun modo suscettibile di ripercuotersi negativamente sulla posizione del giudicabile imputato di un fatto commesso nel vigore della norma costituzionalmente illegittima (ovvero non convertita in legge), così da comportare la punizione del medesimo per effetto della reviviscenza della norma penale nell’ordinamento giuridico”[11].
Del resto, in un’altra pronuncia, sempre emessa in sede di legittimità ordinaria, vale a dire la sentenza n. 46415 del 22/06/2018 (dep. il 12/10/2018) emessa dalla Sezione quarta, è stato asserito in un modo non dissimile che, “per quanto attiene alle condotte commesse nella vigenza delle norme attinte da declaratoria di illegittimità costituzionale, queste ultime continuano ad applicarsi ove da esse derivino conseguenze più favorevoli al reo, in quanto gli effetti della pronuncia di incostituzionalità debbono necessariamente considerarsi recessivi rispetto al principio dell’applicazione della legge penale più favorevole al reo (Cass., Sez. 1, n. 33373 del 23-6-2015 (…))”[12], facendosene conseguire da ciò che “gli effetti della declaratoria d’illegittimità costituzionale, ove siano in malam partem, si esplicheranno esclusivamente in relazione alle condotte successive alla pronuncia del giudice delle leggi”.
Orbene, dal momento che, a fronte del fatto che, tra le argomentazioni, che hanno indotto la Cassazione a ritenere la questione prospettata nella fattispecie in esame rilevante, vi è proprio l’arresto giurisprudenziale summenzionato, questa giurisprudenza, ove ritenuta valevole da parte della Corte costituzionale, per lo scrivente, potrebbe porre seri dubbi sull’ammissibilità della questione in esame per difetto di rilevanza. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia

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2. La non manifesta infondatezza della questione


La Cassazione, dopo avere reputato impossibile ricorrere ad una interpretazione costituzionalmente orientata, ha ritenuto la questione in oggetto non manifestatamente infondata.
In particolare, tra i passi salienti, in base ai quali la Suprema Corte ha deciso di chiedere l’intervento della Consulta, corre l’obbligo di evidenziare prima di tutto che, anche in tale provvedimento, come fatto nelle altre ordinanze con cui taluni giudici di merito hanno sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale, si ripercorrono le norme di riferimento, contenute nella Convenzione di Merida, ma, in questo caso, per giungere ad una prima conclusione, per chi scrive, assolutamente condivisibile.
Si sostiene infatti, a pag. 10 del provvedimento qui in esame, che l’“art. 19 della convenzione non pone (…) un obbligo di penalizzazione dell’abuso di ufficio, in quanto richiede agli Stati contraenti di “considerare” l’adozione della fattispecie di “abuse of functions” (“shall consider adopting”) e non già di introdurla obbligatoriamente, come è previsto per i reati di corruzione (“shall adopt”)”[13].
Pur tuttavia, a fronte di tale considerazione giuridica, si ripete, assolutamente condivisibile, la Corte di legittimità perviene alla conclusione secondo la quale ciò non è però sufficiente per ritenere risolta la questione posto che i ““vincoli derivanti dagli obblighi internazionali” in materia penale per il legislatore, ai sensi dell’art. 118, comma primo Cost., tuttavia, non sono costituiti solo dagli obblighi di criminalizzazione, come è stato chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 28 del 2010”[14] avendo questa pronuncia “dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con la mozione comunitaria di rifiuto, di una norma extrapenale”[15].
Dunque, fatta questa premessa di ordine giuridico, i giudici di piazza Cavour evidenziano che la Convenzione di Merida, ponendo, “del resto, non solo obblighi di criminalizzazione, ma anche di efficacia persecuzione, di perseguimento e di mantenimento degli standard di efficacia stabiliti nella prevenzione della corruzione”[16], fa sì che, nella sua “trama sistematica (…), la penalizzazione delle condotte di abuso di ufficio non rileva solo in relazione alla previsione dell’art. 19, ma anche quale strumento normativo specificatamente destinato a rendere efficace ed effettivo il sistema di prevenzione della corruzione, favorendo la trasparenza e prevenendo i conflitti di interesse”[17] dato che la nozione di abuso di ufficio, posto in tale Convenzione, è “incentrata sugli abusi della funzione posti in essere intenzionalmente dai pubblici agenti e sulle violazioni intenzionali del dovere di astensione che sugli stessi grava, al fine di procurarsi indebiti vantaggi”[18].
Orbene, a fronte di ciò, la Cassazione, nel richiamare le singole norme prevedute dalla Convenzione in esame, denota l’esistenza di un “disegno sistematico”[19], in cui “le misure preventive sono distinte, sul piano sistematico, dalle misure relative all’incriminazione degli illeciti, ma il perseguimento dell’obiettivo dell’efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione può rendere necessario il ricorso alla sanzione pecuniaria”[20].
Ebbene, fermiamoci un attimo, almeno per ora, ad esaminare, non tanto questi passaggi argomentativi compiuti dalla Corte suprema, ma piuttosto quali tecniche interpretative sono state utilizzate per poi svolgere effettivamente codesti passaggi.
Ciò posto, deve quindi osservarsi che, stante quanto sin qui esposto, se la Cassazione giunge ad escludere che, dall’interpretazione letterale (in riferimento all’art. 19 della Convenzione di Merida), si possa risalire ad un obbligo di penalizzazione dell’abuso di ufficio, mentre, come vedremo meglio da qui a breve, essa perviene tuttavia a diverse conclusioni, in relazione ad un obbligo di mantenere in essere codesto illecito penale, ricorrendo ad una interpretazione sistematica in relazione a quanto preveduto da alcune delle norme della Convenzione di Merida.
Sul punto, però, stante quanto previsto dall’art. 31 della Convenzione di Vienna del 1969 (qui non richiamato, ma invece citato in molte ordinanze con cui i giudici di merito hanno sollevato analoga questione di legittimità costituzionale), una giurisprudenza, sempre elaborata dalla Cassazione (seppure) civile (sezione tributaria), ha sostenuto che l’interpretazione letterale delle Convenzioni è il criterio ermeneutico prima facie, come la stessa Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati internazionali (art. 31) prevede nell’ambito di una ermeneutica più rivolta al testo della Convenzione che al contesto in cui è stata adottata, essendo il ricorso a metodi diversi dall’interpretazione letterale consentita unicamente nei casi in cui quest’ultima conduca a conclusioni oscure o in conflitto con altre regole del sistema[21].
Orbene, pur a fronte di tale approdo ermeneutico, la Cassazione non chiarisce in alcun modo perché non dovesse essere considerato condivisibile questo orientamento nomofilattico.
Si spera quindi che il Giudice delle leggi faccia chiarezza anche su codesto aspetto, laddove anch’essa intenda discostarsi da tale indirizzo interpretativo.
Chiarito ciò, continuando ad esaminare la decisione qui in commento, dall’esame delle norme prevedute dalla Convenzione di Merida, con particolar riguardo all’art. 7, al cui quarto comma, è stabilito che ciascuno “stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”, la Cassazione, proprio in riferimento a quanto preveduto da tale comma, giunge alla seguenti conclusioni: 1) questa “disposizione pone uno specifico obbligo (“ciascuno Stato si adopera”) di perseguimento degli standard di efficace prevenzione della corruzione sanciti dalla Convenzione, mediante l’adozione di “sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse””[22]; 2) la Convenzione, “utilizzando il verbo “mantain”, obbliga gli Stati contraenti, nel processo di progressiva attuazione degli obiettivi di tutela perseguiti, a impegnarsi a preservare gli standard di tutela raggiunti e, dunque, dall’astenersi dall’adottare misure, legislative o amministrative, che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli scopi della Convenzione”[23], fermo restando che l’“obbligo di adoperarsi per “mantenere” gli standard di tutela raggiunti nell’efficace prevenzione della corruzione, del resto, opera non soltanto per le misure, legislative o amministrative, adottate dagli stati membri in attuazione della Convenzione, ma anche per le misure che ciascuno Stato aderente aveva già adottato all’atto della sottoscrizione e risultavano pienamente conformi agli scopi di tutela della stessa”[24].
Ad ogni modo, la Corte di legittimità, probabilmente rammentando a se stessa, seppur tacitamente, che il diritto penale rappresenta pur sempre la extrema ratio, subito dopo questi passaggi argomentativi, evidenzia che questo obbligo “non comporta che le norme penali interne necessarie a garantire l’obiettivo debbano rimanere cristallizzate al livello più rigoroso che hanno attinto (e non esclude in radice la riduzione delle aree di illiceità penale o, persino, l’esclusione del ricorso alla sanzione penale), ma attribuisce alle norme attuative una particolare “forza di resistenza” all’abrogazione, che le sottrae a novazioni legislative non conformi al vincolo posto dalla Convenzione”[25].
Ebbene, per il Supremo Consesso, l’abrogazione del reato di abuso di ufficio ha “violato questo specifico obbligo, in quanto non è stata “compensata” dall’adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei cittadini”[26].
In altri termini, sempre ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, il “legislatore, (…) abrogando l’art. 323 cod. pen., ha fatto cessare la “close conformity” con l’obiettivo posto dall’art. 7, quarto comma, della Convenzione e ha violato l’obbligo di mantenere fermo, nella propria legislazione, il livello di efficacia nella prevenzione della legalità dell’azione amministrativa contro gli abusi di ufficio stabilito in sede convenzionale”[27] nel senso che siffatta abrogazione, “lungi dal bilanciare le esigenze costituzionali dell’imparzialità e dell’efficacia dell’azione amministrativa, anche mediante l’ulteriore riduzione dell’ambito dell’incriminazione, ha dato prevalenza incondizionata all’autonomia di amministratori e funzionari nell’esercizio della funzione pubblica, sacrificando integralmente la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere dai pubblici agenti intenzionalmente ai loro danni”[28].
Dunque, non si tratta di una illegittimità costituzionale, per così dire congenita, nella norma abrogativa dell’art. 323 cod. pen., quando piuttosto di una sorta illegittimità derivata per successivo (o contestuale) comportamento omissivo da parte del legislatore.
In effetti, per la Suprema Corte, tale stato delle cose non può ritenersi risolvibile, né con l’introduzione del reato di cui all’art. 314-bis cod. pen. visto che questa “fattispecie di reato, (…) riferendosi ai c.d. abusi di ufficio ditrattivi, si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 19 e ricade nell’ambito applicativo dell’art. 17 della Convenzione, dedicato alla “sottrazione, appropriazione indebita, od altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale””[29], né per mezzo dei “rimendi preventivi anticorruzione (quali quelli introdotti dal d.lgs. 25 maggio 2016, n 97)”[30] dato che essi, “per loro natura, riguardano molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari e si concentrano sull’organizzazione dell’azione complessiva dell’amministrazione, senza assumere alcun effetto specifico nei confronti della singola azione illecita”[31], né con i “rimedi giurisdizionali, peraltro onerosi, non sempre non attivabili in quanto, non di rado, le prevaricazioni dei pubblici agenti si traducono non in atti amministrativi, ma in meri comportamenti, come tali non impugnabili”[32], né con i “sistemi disciplinari”[33] reputati, dai giudici di legittimità ordinaria, “difficilmente applicabili ai dirigenti di più alto livello”[34], così come stimati per di più “estremamente frastagliati”[35].
Nella medesima maniera, sempre per gli Ermellini, “la responsabilità contabile ed erariale non assicura una prevenzione efficace e adeguata degli abusi funzionali commessi in danno dei privati, in quanto questo sistema di responsabilità è incentrato sul danno arrecato allo Stato e non è attivabile a fronte di danni subiti meramente dal privato”[36].
La Corte di Cassazione, quindi, conclude nel senso che il legislatore, “nell’abrogare il reato di abuso di ufficio, non ha introdotto discipline amministrative che mantengano il pregresso standard di efficacia nella prevenzione dei conflitti di interesse e degli abusi di potere dei pubblici agenti prescritto dalla Convenzione di Merida”[37].
Orbene, terminato di esaminare questa complessa e articolata motivazione, incominciamo ad esaminare il paragrafo 4 dell’articolo 7 in cui si prevede, come visto prima, che ciascuno Stato si impegna, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, di mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse, ad avviso di chi scrive, questi sistemi vanno però inquadrati nel complesso contesto della lotta alla corruzione, di cui l’abuso di ufficio può si rappresentare un reato spia, per carità, ma non necessariamente costituisce un elemento strutturale che, ove non più preveduto, determinerebbe il depotenziamento di siffatto sistema.
Del resto, riferendoci al mantenimento dello status quo ante, va oltre tutto fatto presente che tale “mantenimento” non deve comunque avvenire in maniera incondizionata, essendo sufficiente che ciò avvenga nel rispetto dei principi fondamentali del proprio diritto interno e non quindi quelli riguardanti la Convenzione di Merida, o qualunque altra fonte di diritto internazionale.
Ciò, quindi, pone un ulteriore quesito, anch’esso, ad avviso dello scrivente, non trattato nel caso di specie ossia: il venir meno dell’art. 323 cod. pen. ha effettivamente comportato una diminuzione del mantenimento in questione, non tout court, ma parametrato a quanto richiesto dai nostri principi fondamentali?
Ci si auspica che, ove la Consulta dovesse effettivamente considerare la valenza precettiva di questo paragrafo 4, e non meramente orientativa, valuti anche tale profilo giuridico.
Detto questo, va altresì rilevato che, fermo restando che l’interpretazione, fornita dalla Cassazione, non può definirsi letterale atteso che questo articolo 7, come gli altri articoli preveduti dalla Convenzione di Merida, non stabiliscono, per l’appunto expressis verbis, che gli Stati firmatari di questa Convenzione abbiano l’obbligo di mantenere questa fattispecie di reato, anche a voler aderire alla tesi giuridica prospettata in questa occasione, resta il fatto che comunque, se la sanzione penale rappresenta si uno strumento, ma non l’unico, per contrastare la corruzione (e comunque, qui, si tratterebbe appunto di lotta alla corruzione, e non di contrasto ad altri reati commessi dai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, sebbene ad essa connessi, perlomeno come obiettivo individuato come quello effettivamente da doversi perseguire da codesta fonte di diritto internazionale), resta il fatto che qui, per chi scrive, non si tratta tanto di valutare se gli strumenti extragiuridici, approntati dal nostro ordinamento domestico, si rilevino insufficienti a colmare il “vuoto” lasciato dall’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., quanto piuttosto valutare se il legislatore, nell’ambito della discrezionalità che li spetta, abbia agito in conformità a quanto preveduto dal nostro ordinamento giuridico, nel rispetto ovviamente dei vincoli sovranazionali.
Ebbene, secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire quali comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano essere la qualità e la misura della pena ed apprezzare parità e disparità di situazioni[38] purchè ciò avvenga nel rispetto del limite della ragionevolezza e non dia quindi luogo ad una disparità di trattamento palesemente irrazionale ed ingiustificata[39].
Ad avviso dello scrivente, di conseguenza, al di là delle censure critiche prospettate nell’ordinanza qui in analisi rispetto ai deficit che presenterebbero gli istituti, previsti dal nostro sistema giuridico, in ambito extra-penale, se, con tutta sincerità, esse potrebbero anche ritenersi condivisibili de iure condendo, rendendosi probabilmente necessario il potenziamento di strumenti che potevano, si completare il quadro normativo nel periodo in cui era previsto l’art. 323 cod. pen., ma non sostituirlo in toto, tale circostanza, di per sé, non prova che la scelta legislativa compiuta nel caso di specie debba ritenersi per forza di cose di per sé irrazionale e ingiustificata (e tale quindi da comportare un indebita compressione di questo sistema di tutela, non essendo stato fatto alcun riferimento ad una asserita irragionevolezza di questa disposizione abrogativa, perlomeno in modo espresso, rispetto a quanto preveduto dalla Convenzione di Merida).
A tal proposito, non sembra militare in tal senso quel passaggio argomentativo, sempre rinvenibile nell’ordinanza qui in commento, secondo il quale il legislatore, “nell’abrogare il reato di abuso di ufficio, ha considerato l’idoneità della disciplina amministrativa vigente e tutelare l’interesse pubblico e non già quello dei cittadini a non essere danneggiati dagli abusi funzionali o dalla mancata astensione dei pubblici agenti che agiscono in conflitto di interesse”[40] visto che la “previsione del reato di abuso di ufficio, con riferimento alla violazione dell’obbligo di astensione e al divieto di violazioni della legge poste in essere intenzionalmente in danno del privato, aveva, infatti, una portata generale ed estremamente efficace, anche sul piano preventivo, in ragione della previsione della minaccia della sanzione penale”[41].
Difatti, anche a volere reputare ipoteticamente condivisibile in toto quanto appena citato, il problema rimane lo stesso: per quanto si possa “criticare”, in un punto di politica del diritto, una scelta legislativa di questo genere, ciò è sufficiente per ritenere che, nel caso di specie, si sia travalicato il limite della ragionevolezza, dandosi quindi luogo ad una disparità di trattamento palesemente irrazionale ed ingiustificata?
Ebbene, si rimanda alla Corte costituzionale la risposta a siffatto quesito.
Infine, concludendo la disamina delle tematiche trattate in codesto scritto, si potrebbe infine ipotizzare che, come è avvenuto per l’ergastolo ostativo, ben potrebbe la Corte costituzionale dare un termine al legislatore per intervenire al fine di colmare eventuale lacune, che potrebbero essere sorte a seguito dell’abrogazione dell’abuso di ufficio, stimate dalla medesima Consulta atte a determinare l’affievolimento del “sistema” a cui fa riferimento il paragrafo 4 dell’art. 7 della Convenzione di Merida (come potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione di appositi rimedi giurisdizionali amministrativi, a basso costo, laddove la condotta illecita dei pubblici ufficiali sia consistita in un mero comportamento) così come inteso dalla Cassazione nel caso di specie, prima di dichiarare sic et simpliciter l’incostituzionalità della norma abrogativa dell’art. 323 cod. pen..
Questa scelta decisoria, difatti, potrebbe rappresentare un rimedio con cui, da un lato, verrebbe mantenuta in vigore l’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., così rispettando la volontà del legislatore, dall’altro, si procederebbe, ove ve ne fosse bisogno, al rafforzamento di quelle tutele, che eventualmente sarebbero state ridotte a causa di siffatta abrogazione.
Non resta dunque che attendere (l’udienza è stata fissata il 7 maggio prossimo), quale posizione assumerà la Corte costituzionale su tale complessa questione.

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Note


[1]Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 5 e p. 6.
[2]Ibidem, p. 6.
[3]Ibidem, p. 6.
[4]Ibidem, p. 6.
[5]Ibidem, p. 6.
[6]Corte cost., 25/01/2010 (dep. 28/01/2010), n. 28.
[7]Corte cost., 12/02/2014 (dep. 25/02/2014), n. 32.
[8] Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 6.
[9]Ibidem, p. 6.
[10]Ibidem, p. 7.
[11]Cass. pen., sez. I, 22/09/2016 (dep. 18/05/2017), n. 24834.
[12]Cass. pen., sez. IV, 22/06/2018 (dep. 12/10/2018), n. 46415.
[13]Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 10.
[14]Ibidem, p. 10.
[15]Ibidem, p. 10.
[16]Ibidem, p. 10.
[17]Ibidem, p. 10.
[18]Ibidem, p. 10.
[19]Ibidem, p. 11.
[20]Ibidem, p. 11.
[21]Ex multis, Cass. civ., sez. trib., 24/11/2016, n. 23984.
[22]Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 11.
[23]Ibidem, p. 11.
[24]Ibidem, p. 12.
[25]Ibidem, p. 12.
[26]Ibidem, p. 12.
[27]Ibidem, p. 12.
[28]Ibidem, p. 15.
[29]Ibidem, p. 16. A tal proposito, se l’inserimento di questo precetto normativo non va effettivamente a ricondursi nell’ambito di quanto previsto dall’art. 19 della Convenzione di Merida, ciò non toglie però che questa nuova norma incriminatrice ben può essere ricondotta nell’ambito di quelle misure in grado di mantenere i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse, sanzionando pur sempre una forma di abuso, seppur di natura distrattiva. Il riferimento all’art. 19, del resto, ad avviso di chi scrive, appare comunque di per sé irrilevante dato che questo articolo, come già visto nella parte iniziale di tale scritto e come riconosciuto dalla medesima Cassazione, non pone un obbligo di penalizzazione dell’abuso di ufficio, ma al contempo pare essere anche erroneo visto che i medesimi giudici di legittimità ordinaria, come si evidenzia nella pronuncia qui in commento a pagina 15, riconoscono che questa nuova ipotesi di reato si riferisce a quella dell’abuso di ufficio, seppur nella forma distrattiva. Ma allora, se nel nostro ordinamento domestico, tale reato è riconosciuto come una forma, seppur peculiare, di abuso di ufficio, non si vede il motivo, al di là delle ragioni che hanno indotto il legislatore ad una introdurre una fattispecie delittuosa di questo tipo, per cui una norma incriminatrice, così concepita, volta comunque a sanzionare una condotta indebita da parte di un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, non possa ragionevolmente contribuire alle misure richiamate nell’art. 7, co. 4, Convenzione di Merida e soprattutto perché la repressione di fattispecie di reato, menzionata nell’art. 17 sempre di questa Convenzione, non possa essere anch’essa ricondotta nel novero di codeste misure. Sul punto, la Cassazione nulla dice al riguardo e, sotto questo profilo, laddove la Corte costituzionale intendesse recepire il passaggio argomentativo in merito all’inidoneità di questo “nuovo” art. 314-bis cod. pen. nel colmare, anche soltanto in parte, il ritenuto deficit rispetto agli obiettivi di tutela fissati dagli articoli 19 e 7, quarto comma, della Convenzione di Merida, per effetto dell’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., sarebbe auspicabile che fornisse un’adeguata spiegazione di ciò (nei termini appena esposti).
[30]Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 17.
[31]Ibidem, p. 17.
[32]Ibidem, p. 17.
[33]Ibidem, p. 17.
[34]Ibidem, p. 17.
[35]Ibidem, p. 17.
[36]Ibidem, p. 17.
[37]Ibidem, p. 17 e p. 18.
[38]In tal senso, Corte cost., 26/01/1994 (dep. 10/02/1994), n. 25.
[39]Ibidem.
[40]Cass. pen. (Preso. Fidelbo, Giud. est. D’Arcangelo), sez. VI, ord., 21/02/2025 (dep. 7/03/2025), n. 9442, in sistemapenale.it, p. 17.
[41]Ibidem, p. 17.



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