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Anche leggendo le notizie stampa e senza conoscere i dati processuali, chi abbia un minimo di curiosità non può fare a meno di porsi qualche domanda sulla vicenda del Salva Milano. La prima è perché si sia sentita l’esigenza di “salvare Milano”. La risposta dovrebbe essere immediata: perché l’autorità giudiziaria milanese e in particolare la Procura della Repubblica avrebbe seguito interpretazioni difformi da quelle del Comune di Milano su cosa sia una ristrutturazione, su quando serva un piano edilizio attuativo e, in sostanza, su quali regole si debbano seguire per lo sviluppo edilizio della città. Si trattava di salvarla, Milano, perché le interpretazioni piuttosto restrittive della Procura avrebbero bloccato alcune iniziative in corso e impedito altre future.
La seconda domanda: come mai alcuni dirigenti amministrativi e alcuni legali di operatori economici privati si sarebbero curati di redigere in via informale, in tutto o parte, il testo della bozza del c.d. Salva Milano? Anche qui la risposta potrebbe essere agevole: accade frequentemente che ci siano contributi esterni e informali alla produzione legislativa. Nulla di male, purché alla fine sia ovviamente il Parlamento a stendere il testo definitivo e ad approvarlo. Almeno questo, saremo tutti d’accordo, alla politica dovrà spettare.
Veniamo alla terza domanda e chiediamoci come mai il Comune di Milano abbia deciso di “abbandonare” il Salva Milano al suo destino e di negargli il sostegno a causa dell’erompere delle indagini nei confronti di alcuni dirigenti dello stesso Comune, con tanto di misure cautelari. Questa volta, come alcuni hanno già osservato, è un po’ più difficile comprenderne i motivi. Se infatti le ragioni giuridiche su cui l’amministrazione comunale aveva basato le proprie scelte erano solide, tali dovrebbero restare anche alla luce delle indagini in corso. Se, secondo le interpretazioni – innovative, a quanto pare – fatte dai pubblici ministeri c’era bisogno di proteggere i progetti in corso e preservare lo sviluppo della città simbolo della crescita economica della Repubblica, non si vede perché questa finalità debba annegare tra le onde di una indagine che, fondate o infondate che siano le accuse, non tocca la sostanza delle due tesi giuridiche in campo.
La quarta domanda è più generica, ma probabilmente la più diffusa tra i non addetti ai lavori: se si tratta – al di là delle responsabilità per fatti collaterali – di stabilire le regole per lo sviluppo edilizio e urbanistico di una città, perché mai la questione interessa la Procura? Alla domanda (quella forse più di buon senso) giunge la più facile delle risposte: perché l’ordinamento prevede che la violazione delle leggi edilizie comporta un reato, e quindi un illecito punito con sanzione penale.
Mi guarderò bene, a beneficio del lettore, dall’affrontare sofisticate questioni giuridiche, le quali beninteso (queste come le altre) più passa il tempo e più diventano sofisticate in Italia, con grande passione di chi fa del giuridichese la propria religione quotidiana. Pertanto, non parlerò della circolare ministeriale che sin dal 1969 interpretava il principio di obbligatorietà dei piani attuativi in chiave riduttiva, né del recupero delle aree a beneficio della collettività e nemmeno del concetto di ristrutturazione come comprendente il caso della demolizione e ricostruzione con conservazione dei volumi ma non della sagoma dell’edificio. Lasciamo ad altre sedi questi problemi, dicendo solo che sembra quantomeno attendibile e ragionevole la tesi seguita dal Comune di Milano; quella che ha consentito un formidabile sviluppo urbanistico della città negli scorsi decenni. O almeno, così mi sembra, anche in base alla legislazione che vale per la Lombardia in questa materia.
La riflessione che propongo riguarda invece il principio di separazione dei poteri e quello dello Stato di diritto, a gran voce invocati sulle questioni di attualità più disparate, europee ed italiane. Basti menzionare il capitolo migranti. Questo principio presupporrebbe anzitutto che il Parlamento eserciti la sua funzione legislativa con pienezza, il che conferma che i recenti accadimenti non dovrebbero influire sulle sue decisioni. Se il problema era di salvare Milano, tale resta anche se un dirigente comunale avesse commesso un reato di corruzione; mi preoccupa assai meno, per inciso, il fatto che egli o altri possano aver suggerito un articolato di un certo tenore al decisore politico. Se la tesi giuridica seguita per lunghissimo tempo dal Comune – e non solo dal Comune – fosse fondata, ci sarebbero gli spazi per approvare una legge di interpretazione autentica, con buonapace e col massimo rispetto della lettura fatta dagli inquirenti.
La separazione dei poteri, poi, andrebbe ricordata soprattutto a proposito della nostra amministrazione pubblica, bersagliata dalla cultura del sospetto e da eccessi di responsabilità. Bene, l’amministrazione serve eccome e servono le sue decisioni. Se si tratta dello sviluppo urbanistico di una città – e di una come Milano, poi – le scelte dell’amministrazione sono essenziali. Devono puntare al benessere pubblico e alla cura dell’interesse di tutti e chi esercita l’indirizzo politico-amministrativo ne assume la responsabilità politica. È importante che queste scelte siano ben fatte, sicuramente, ma anche che mantengano quelle caratteristiche di stabilità e certezza che servono all’ordinamento e alla società stessa: l’atto amministrativo da questo punto di vista può essere equiparato alla sentenza del giudice, perché fissa la regola del caso concreto. Certo, le decisioni amministrative devono rispettare la legge, ma proprio per questo è previsto che ci sia un giudice amministrativo che vigila su di esse.
Possiamo così supporre che tra i progetti bloccati magari ve ne siano alcuni che erano stati già valutati da questo giudice e che quest’ultimo li avesse ritenuti legittimi. Il punto, però, è che c’è un altro giudice che interviene sulla scena. C’è il diritto penale, che ormai da più di trent’anni occupa uno spazio sempre più vistoso, in nome di quello che potremmo definire il panpenalismo all’italiana. E tra i territori conquistati certamente c’è anche quello dei poteri della pubblica amministrazione.
Credo allora che il caso di Milano – a prescindere dai torti e dalle ragioni di specie – sia l’ennesima testimonianza di questa costante tensione tra giurisdizione penale e amministrazione e dei problemi che ne derivano per cittadini e imprese, un fenomeno che ha ormai venature di costume sociale e che sarà giudicato in futuro dagli storici. Prima di attendere il passaggio della storia sarebbe però il caso di fare qualcosa per Milano, come città e come simbolo per l’Italia intera di sviluppo e crescita economica e civile. Speriamo perciò resti valido nel presente come nell’immediato futuro quell’indimenticabile ritratto che diceva “… Milano vicino l’Europa, Milano che banche, che cambi …”. Era il 1979 e il 1992 era lontano, e questo spiega perché Lucio Dalla avesse tralasciato il palazzo di giustizia. Ma se solo si riuscisse a proseguire nello sviluppo edilizio della città che guida la nostra economia, non ne dubitiamo, ci sarebbe il giusto spazio anche per quest’ultimo palazzo, senza mancare di rispetto allo Stato di diritto.
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