«Ci sono eventi che si ripetono, identici al passato. Ancora una volta, di fronte alle crisi di sicurezza, spesso rappresentate in maniera distorta e senza la possibilità di proporre alternative, si ricorre all’opzione del riarmo. Infatti, durante gli ultimi 25 anni, le spese militari globali sono raddoppiate. E il risultato è un mondo che si presenta sempre più insicuro». Con queste parole Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo, spiega i limiti del piano di riarmo da 800 miliardi voluto dall’Ue, mentre l’opinione pubblica e i governi sembrano dividersi dopo l’incontro fra Zelens’kyj e Trump alla Casa Bianca.
L’abbiamo contattato mentre si trovava a New York per la terza Riunione degli Stati Parte del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw), l’accordo internazionale che mette al bando molte attività legate alle armi atomiche, che si è appena conclusa: «Questo piano di riarmo – aggiunge Vignarca – va a sommarsi alla crescita esponenziale che c’è già da tempo in Italia e in tutto il continente europeo. Ci porterà a una maggiore insicurezza, ci indurrà a vedere tutto in termini di scontro. A discapito di qualsiasi soluzione diplomatica. Abbiamo visto proprio con la guerra in Ucraina come sia stata eliminata qualsiasi ipotesi di diplomazia. Nel momento in cui l’amministrazione Trump ha preso delle decisioni diverse, tutto è crollato».
Francesco Vignarca, il “Manifesto di Ventotene” è stato tradito?
Credo che siano state tradite tante cose da quando si sognava un’Europa come progetto di pace, a partire dalla Seconda guerra mondiale. Penso al Manifesto di Ventotene ma anche alla Dichiarazione Schuman, che non a caso dà il motivo per la giornata dell’Europa del 9 maggio, in cui si dice che l’Europa va costruita non sulle armi, non sulla contrapposizione militare ma sulla cooperazione. E se ci pensiamo, è stato geniale farlo. La condivisione di risorse fondamentali, avviata con la “Comunità europea del carbone e dell’acciaio” e continuata attraverso le attuali istituzioni europee, ha avuto un impatto significativo sulla trasformazione dello scenario mondiale. Per secoli, Germania e Francia sono state in conflitto tra loro. Tuttavia, anziché combattersi per il dominio, hanno scelto di valorizzare l’interesse comune, aprendo la strada a una cooperazione che ha cambiato radicalmente le dinamiche politiche e sociali in Europa.
La narrazione prevalente sta quindi andando in una direzione diversa…
Sì, diversamente da quello che dice Ursula von der Leyen e da ciò che sostengono alcuni analisti e cortigiani del riarmo, non siamo in una situazione di insicurezza, come se ci trovassimo in uno stato di natura. Siamo arrivati a questo punto a causa di alcune scelte. E non è vero che c’è solo una via d’uscita. Ma le prospettive di pace e di non violenza non vengono considerate, perché altrimenti le persone si accorgerebbero che potrebbero funzionare.
A distanza di tre anni, pensa che la guerra in Ucraina si sarebbe potuta evitare?
Le guerre sono sempre evitabili. Sono sempre da evitare. Ci sono delle responsabilità attribuibili alle persone e agli Stati che ci conducono in una direzione. Il fatto che noi da tempo (Rete italiana pace e disarmo, ndr) abbiamo detto che l’occidente, l’Europa e la Nato avrebbero potuto fare scelte diverse, non implicava che non ci fosse una responsabilità della guerra da parte di Putin. Tuttavia, di fronte a quel tipo di minaccia, come l’aggressione della Russia, si può percorrere una strada diversa. Uscendo cioè dallo schema dello scontro o dell’escalation, che è spesso culturale, oltre che sociopolitico ed economico.
Questo si poteva fare. Soprattutto si poteva gestire diversamente anche una volta scoppiata la guerra, in cui si perde sempre tutto, come sosteneva Benedetto XV oltre cento anni fa. Da anni diciamo che, indipendentemente dalla prima risposta di difesa e di aiuto militare all’Ucraina, il puntare soltanto sul “dare più armi” senza pensare alle vie della diplomazia e dei negoziati, si sarebbe rivelato un suicidio. È stato un errore madornale il non voler quindi iniziare a costruire la pace, perché non solo ha distrutto un paese e mietuto centinaia di migliaia vittime, ma anche perché non dà prospettive.
Il percorso di pace implica un dover rinunciare a qualcosa?
Dobbiamo dirlo chiaramente: la costruzione della pace non è qualcosa che succede istantaneamente. Quindi, anche considerare un cessate il fuoco e accordi che, sfortunatamente, potrebbero concedere qualcosa all’arroganza di Putin, non significa necessariamente accettare una sconfitta, né tantomeno arrivare alla conclusione che la giustizia sia stata sacrificata in favore della forza. Nella vita, a volte dobbiamo rinunciare a ciò che è giusto ma irraggiungibile nel momento presente, per evitare conseguenze completamente distruttive. Questo è l’elemento chiave. Dobbiamo sempre mirare a una pace positiva, che si costruisce attraverso un percorso condiviso e concreto, piuttosto che lasciarci ingannare da chi usa la parola “pace” in modo fuorviante, pensando a situazioni astratte e lontane dalla realtà.
Dal suo punto di vista, può risultare efficace il piano di pace voluto da Trump?
Non credo che quello di Trump sia un piano di pace. Donald Trump non vuole quella guerra per motivi di politica internazionale, per motivi economici, perché in questo modo completa la distruzione dell’Unione europea, facendole pagare la difesa Ucraina attraverso il riarmo che avvantaggerà le industrie militari statunitensi. Si libera di un problema, avrà un introito per le sue aziende, e allo stesso tempo potrà avere maggiori possibilità di poter staccare la Federazione Russa dalla Cina, che è l’incubo di tutti i politologi statunitensi. Quindi non è un piano di pace ma di divisione, di imperialismo. Un piano per ottenere risorse.
Non si può parlare allora di Trump pacifista…
In questo momento sono a New York, per la Conferenza degli Stati Parte del Tratto sulla Proibizione delle armi nucleari e non credo che le scelte di Trump aiuteranno la working class, ma avvantaggeranno gli interessi transnazionali finanziari di coloro che abbiamo già visto nelle foto di insediamento del presidente americano a Washington nella prima parte di gennaio.
Non parliamo di Trump pacifista. Certo, probabilmente otterrà la fine delle ostilità, ma con un accordo di spartizione e di potere. E questo non potrà dare avvio a percorsi di pacificazione e di giustizia, perché non c’è un reale coinvolgimento dei popoli. Per noi la pace la fanno solo i popoli.
È davvero così difficile oggi parlare di disarmo?
In realtà non è poi così difficile parlare di disarmo. Il disarmo è una cosa seria. È un pezzo fondamentale delle politiche di pace e di nonviolenza. Non è il solo. Non dobbiamo continuare a parlare solo di pezzettini, perché in questo modo non teniamo conto della visione complessiva e non si riesce ad essere efficaci, realistici, concreti e convincenti nelle proposte. Il disarmo è semplice quando lo si spiega. Quando si fa capire che è bilanciato, quando sposta cioè le risorse da un confronto muscolare e le mette nella costruzione di pace. Tanto è vero che giro tanto, faccio incontri con persone e anche quando c’è qualcuno non del tutto convinto, mi ascolta, ascolta le nostre proposte serie. Arriva il nostro realismo, fatto di nonviolenza e disarmo, non di interventi militari.
Quando le persone lo capiscono, si mettono in moto per la pace. E anche per questo c’è un silenziamento del disarmo, delle voci di pace.
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