Già solo il termine “carcere” risulta respingente agli occhi dell’opinione pubblica. Come un altrove indigesto che non la riguarda. I morti in carcere, e di carcere, poi, sono destinati all’oblio. O essere numeri in sterili contatori usati dall’opposizione per attaccare il governo di turno. Le loro storie restano solo nella memoria delle persone a loro vicine. Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera, ha deciso di entrare in quelle storie. Nei loro dettagli più profondi, nei punti interrogativi rimasti sospesi, nelle pieghe in cui si annidano le sliding door di una vita che, se solo qualcosa avesse funzionato in maniera diversa, avrebbe preso un’altra direzione. Lo ha fatto attraverso un libro – Morire di pena, editore Laterza, con prefazione di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi – in cui racconta dodici storie di suicidi in carcere, o di morti in circostanze ancora da chiarire. Nei penitenziari, o a causa di questi.
Di carcere non si occupa più nessuno. Di morti in carcere ancor meno. Perché hai scelto di raccontare queste storie?
Si tratta di un tema che mi interessa da sempre. Dai tempi dell’Università, delle lezioni di diritto penitenziario. È un tema che appassiona poco la società. Perché, come mi ha detto un editor una volta, ‘se non ti identifichi non leggi e non compri’. Ho scelto, quindi, di raccontare il carcere in modo diverso, fuori dalla logica della statistica. Di raccontarlo entrandoci dentro.
Scrivi dodici storie, a volte simili, altre volte molto diverse tra loro. Hanno un minimo comune denominatore?
Parlano tutte di morti che, probabilmente, si potevano evitare. In tutte le storie, poi, si intravede una responsabilità di parti dello Stato. Ogni suicidio è un atto personale, che può avere vari fattori scatenanti. Ma la restrizione dettata dal carcere, le condizioni di detenzione, con la carenza di personale come gli psicologi e figure simili, fanno perdere ulteriormente perdere la speranza. Sono fattori che contribuiscono ad alimentare i suicidi. Proprio per questo spesso si parla di suicidi annunciati. E alcuni di quelli di cui scrivo sono tali.
I protagonisti di molte delle storie che racconti avevano problemi psichiatrici, o una tossicodipendenza. Perché nei penitenziari c’è questa così alta concentrazione di persone con questo tipo di difficoltà?
La popolazione carceraria è cambiata negli anni. Se negli anni 70 la maggior parte dei reclusi erano delinquenti professionali, oggi una quantità consistente di detenuti ha commesso reati minori. E li ha commessi per problemi psichiatrici o a causa della tossicodipendenza, o perché viene dai margini della società, come nel caso dei migranti. Il carcere è ormai una discarica sociale in cui si vuole recludere la devianza. Succede con questo governo, ma succedeva anche con i precedenti. La popolazione carceraria è cambiata molto, sono entrati i migranti dopo la legge Bossi-Fini, le persone con problemi di tossicodipendenza, con la Fini-Giovanardi. E ora, con il decreto Caivano, entrano più minori. Non sono, però, cambiati i servizi offerti nei penitenziari, le figure professionali che li popolano. Se a ciò si aggiunge il sovraffollamento, si capisce che il carcere è ormai una polveriera.
La tendenza, lo evidenziavi, arriva da lontano. Eppure forse in questi ultimi anni ha preso una piega ancora peggiore. Può essere dovuto anche alle politiche del governo Meloni?
Le responsabilità ci sono a destra come a sinistra. La destra ha una spinta in più nella logica di “lasciar marcire in carcere” e “buttare la chiave”. Il governo, peraltro, si mostra sprezzante. Pensiamo alla frase del sottosegretario Andrea Delmastro, che dice di andare in visita dei soli agenti perché “non mi inchino alla Mecca dei detenuti”. Una frase inaccettabile, che nega anche l’umanità.
Quando si fa notare al governo che ci sono dei problemi strutturali, come il sovraffollamento, risponde: ‘Costruiremo nuove carceri’. Ma avrebbe un senso procedere in questo modo?
Nessun senso. Lo dicono le statistiche. Costruire nuove carceri è tecnicamente impossibile: tutti i piani realizzati sono sempre stati fallimentari. Ma creare più spazio è anche un finto rimedio.
Nel libro racconti anche delle rivolte del 2020. Quando, nel momento più difficile della pandemia, le carceri si infiammarono e ci furono 13 morti. Il governo sostiene di aver creato il reparto speciale contro le rivolte, il Gio, proprio perché non si ripetano quei disordini.
È il tipico atteggiamento di chi non aspetta altro che reprimere le rivolte, senza pensare che queste si scatenano per le condizioni di vita inaccettabili. Nel 2020, poi, il tutto era aggravato dalla paura del Covid, dai primi contagi in cella. Persino in Iran, in quel periodo, hanno fatto uscire migliaia di persone dal carcere. È chiaro che, se si verifica una protesta violenta si deve trovare il modo di ripristinare l’ordine, ma bisognerebbe intervenire prima. E fare in modo che ciò non accada. Non è un caso se negli istituti definiti modello, come Bollate, rivolte e suicidi tendenzialmente non si verificano.
Colpisce che, nel libro, di ogni storia racconti tutti i dettagli: le relazioni dei medici, le cartelle cliniche, le ricostruzioni dei testimoni, gli ultimi messaggi. Perché questa ricostruzione così minuziosa?
È stata una scelta precisa. Scendere così nel dettaglio mi ha consentito di evitare di trasformare ogni storia in un piccolo romanzo. Non volevo entrare in finzioni letterarie che avrebbero tolto forza al racconto. Era un modo, inoltre, per entrare dentro a quel che era successo, per far vedere l’inefficienza dello Stato, della burocrazia.
Dopo che hai lavorato così a fondo sul tema, pensi che quale sarebbe la prima cosa da fare per porre un freno ai suicidi in carcere, soprattutto dopo il drammatico record del 2024?
La soluzione più immediata sarebbe un macro intervento, come l’amnistia. Non è un caso se il numero minore di suicidi si è verificato proprio a ridosso dei provvedimenti di amnistia e indulto. Il Parlamento, però, ha da un po’ di anni cambiato il quorum che serve per l’approvazione di questi provvedimenti, rendendone così quasi impossibile il via libera. Ciò è anche dovuto al fatto che si tratta di misure che quasi nessuno vede più di buon occhio tra i partiti. Forse neanche un partito di sinistra oggi voterebbe l’amnistia, che poi da sola non sarebbe risolutiva, ma sarebbe la strada principale per iniziare.
E poi come bisognerebbe proseguire?
Tenendo a mente che il carcere ormai è diventato il perno del sistema penale, nonostante la pena possa essere applicata in mille modi. Nonostante la parola carcere non sia neanche in Costituzione. Servirebbe un cambiamento culturale, la presa di coscienza del fatto che il carcere è criminogeno. E poi bisogna pensare a provvedimenti deflattivi: la proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale (che avrebbe consentito ai detenuti che avevano una buona condotta degli sconti di pena maggiori rispetto a quelli attuali, ndr) sarebbe stata una buona strada.
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