vietato parlare di violenza di genere

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Nel liceo Leonardo da Vinci di Milano non si discute di violenza di genere. Non perché il problema non esista, non perché non riguardi le studentesse e gli studenti, non perché non sia un tema di stretta attualità. Semplicemente, non se ne parla. Il Consiglio d’Istituto ha deciso di vietare un incontro con l’associazione Non Una di Meno, promosso dal Collettivo Primavera, con la motivazione che “manca il contraddittorio”. È la consacrazione definitiva della retorica della neutralità, che diventa il pretesto perfetto per la paralisi. L’idea che ogni tema debba essere affrontato con due posizioni contrapposte, anche quando i dati e la realtà parlano chiaro, è il trionfo dell’indecisione eretta a principio pedagogico. Come se la violenza sulle donne fosse una questione di opinione, come se la prevenzione dovesse passare attraverso un dibattito tra chi denuncia e chi minimizza.

Non si tratta solo di un episodio isolato. La scuola italiana è sempre più terreno di scontro tra chi vorrebbe trasformarla in un laboratorio di pensiero critico e chi la concepisce come una macchina burocratica che sforna studenti addestrati all’obbedienza. In questo contesto, parlare di violenza di genere diventa pericoloso, perché significa riconoscere che esiste un problema culturale radicato, che la scuola stessa non è esente da responsabilità e che il cambiamento passa proprio dall’educazione. Meglio, quindi, rifugiarsi nel principio del contraddittorio, che in realtà è una resa mascherata da prudenza.

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La censura non si manifesta sempre nella sua forma più esplicita. Non servono decreti o divieti formali quando esistono strumenti più subdoli per orientare il discorso pubblico. Al liceo Leonardo da Vinci, questa dinamica è evidente: prima la decisione di vietare la distribuzione di un volantino giudicato “troppo politico”, poi la creazione di una commissione di vigilanza sui contenuti prodotti dagli studenti e infine la bocciatura di ben tre assemblee, tutte con la stessa motivazione del “contraddittorio mancante”. Il risultato è chiaro: lo spazio per la discussione si restringe progressivamente, gli studenti vengono educati a non disturbare l’ordine precostituito, la scuola diventa un luogo di addestramento alla passività.

La preside dell’istituto, Luisa Francesca Amantia, si affretta a negare ogni accusa di censura. Parla di pluralismo, di scelte ponderate, di necessità di affrontare certi argomenti con il supporto di esperti. Un discorso rassicurante, che però si scontra con la realtà di una scuola che, invece di incentivare il dibattito, lo soffoca. L’idea che la prevenzione della violenza sulle donne debba essere subordinata a un contraddittorio è, di per sé, un’ammissione di debolezza culturale. Nessuno si sognerebbe di pretendere un contraddittorio in un incontro sulla sicurezza stradale o sul cambiamento climatico. Perché, allora, è necessario quando si parla di violenza di genere?

Il vero problema è che la scuola italiana ha paura delle parole. Non è un caso che negli ultimi anni le istituzioni scolastiche siano sempre più spesso al centro di polemiche legate alla libertà di espressione. Si vietano assemblee, si censurano temi scomodi, si pretendono versioni edulcorate della realtà. Il Collettivo Primavera, nel denunciare quanto accaduto, ha evidenziato un altro punto cruciale: la creazione di una commissione di vigilanza interna, incaricata di supervisionare i contenuti diffusi dagli studenti. Una misura che, nella sua pretesa di garantire equilibrio, sancisce in realtà la definitiva subordinazione del pensiero critico al controllo istituzionale.

La scuola dovrebbe essere il primo luogo in cui si impara a leggere il mondo per ciò che è, non per ciò che conviene. E invece ci troviamo davanti a istituti che si comportano come aziende attente alla propria immagine, dove la gestione della comunicazione prevale sulla formazione. Il messaggio che passa è chiaro: meglio evitare problemi, meglio non esporsi, meglio non turbare gli equilibri. Un’educazione alla moderazione che si traduce, nei fatti, in un’educazione al silenzio.

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Ma se c’è una lezione che questa vicenda può insegnare, è che la scuola non appartiene solo a chi la dirige, ma soprattutto a chi la vive. La reazione degli studenti del Collettivo Primavera dimostra che c’è una generazione che rifiuta di accettare passivamente queste logiche. La denuncia pubblica, la mobilitazione sui social, l’ostinazione nel voler parlare di ciò che gli viene vietato: tutto questo dimostra che la scuola è ancora un campo di battaglia culturale e politico.

La libertà di espressione non è mai un dato di fatto. Deve essere difesa ogni giorno, in ogni contesto. La scuola non dovrebbe insegnare a evitare i conflitti, ma a gestirli, a comprenderli, a trasformarli in occasioni di crescita. Oggi, al liceo Leonardo da Vinci, si insegna invece che certi argomenti è meglio non toccarli. Ma la storia ha dimostrato più volte che il silenzio non ha mai risolto nulla. Chi oggi vieta il dibattito sulla violenza di genere non sta difendendo il pluralismo: sta scegliendo da che parte stare.

A domani.

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