Tutti al Louvre, la nuova boutique intellettuale

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Prestito personale

Delibera veloce

 


Insomma, si tratta di un evento che mira a mostrare come «gli oggetti preziosi abbiano nutrito l’immaginazione dei creatori». Nathalie Crinière, curatrice dell’allestimento, ha voluto realizzare un intreccio che è un tentativo di legare la fragilità del contemporaneo alla solidità dell’eterno. La mostra, sostiene, non si limita a celebrare il glamour: è anche un omaggio a Marie-Louise Carven, pioniera della moda e collezionista d’arte, che nel 1973 donò al Louvre centinaia di oggetti d’arte del XVIII secolo, dimostrando che la couture può essere un ponte tra epoche, una forma di conservazione e innovazione al tempo stesso.

Da sinistra, abito di Yohji Yamamoto e a destra abito di Balenciaga by Demna.

Sconto crediti fiscali

Finanziamenti e contributi

 

Con l’ingresso glorioso dell’abbigliamento deluxe al Louvre, il pendolo sembra oscillare verso una nuova narrazione culturale. Ma a quale prezzo? Se la moda trova nei musei una legittimazione culturale, i musei rischiano di trasformarsi in luoghi di intrattenimento, più che di contemplazione? Le mostre “immersive” – termine orrendo – hanno già dimostrato come l’arte possa diventare uno spettacolo per i social. Dunque, quest’unione è davvero un matrimonio d’amore o solo una strategia di convenienza? Il punto è che i musei si sono innamorati della moda perché il vestire, come l’adornarsi o lo scegliere una certa acconciatura, hanno la capacità di catturare l’attimo e trasformarlo in icona, e portano in quegli spazi tradizionali e talvolta un po’ impolverati quel brivido di effimero che si sposa sorprendentemente bene con il peso del marmo e l’aura delle tele. Questo non è solo un corteggiamento strategico, ma un’unione scambievole di convenienze e seduzione, dove entrambi gli amanti trovano qualcosa che desiderano ardentemente: dal canto suo, la moda sogna di camminare in equilibrio sul filo del tempo e guarda alla sua ratifica altisonante raggiungendo luoghi dove le sue creazioni possano aspirare all’immortalità, mentre i musei cercano la vivacità dello Zeitgeist. E poi c’è la questione del pubblico: con il suo glamour popolare lo stile porta nei musei nuove legioni di ammiratori, giovani e affamati di storie che si possono vedere finalmente dal vivo per goderne. Quindi, chi sta davvero rincorrendo chi? La storia di questa relazione è ricca di episodi seducenti e ambigui: Elsa Schiaparelli collaborava con Dalí per creare abiti che erano dichiarazioni surrealiste, mentre Yves Saint Laurent traeva ispirazione da Mondrian e Matisse per trasformare le tele in vestiti. Ma se una volta la moda si limitava a flirtare con l’arte, oggi le case di moda vogliono esserne autrici. Pensiamo a Saint Laurent Productions by Anthony Vaccarello, che dal 2023 ha firmato pellicole di registi come Pedro Almodóvar, Paolo Sorrentino, Jacques Audiard e David Cronenberg, o a Loewe, che ha portato JW Anderson a disegnare i costumi di Challengers o di Queer, gli ultimi film di Luca Guadagnino. In questo caso il cinema non è più un semplice veicolo, ma parte integrante di una strategia che mira a rendere la moda un fenomeno totale. E del resto, l’ingresso dei grandi marchi del fashion e del cosiddetto lusso in generale tra gli operatori della scena artistica non è una novità. Questi brand si sono attribuiti un ruolo così importante nel creare eventi e piattaforme creative che alcuni di loro sono divenuti protagonisti di rilievo di questo primo scorcio del XXI secolo.

Oltre ad avere edificato cattedrali dedicate all’arte contemporanea (Lvmh, Kering, Prada) la loro presenza nelle più celebrate manifestazioni mondiali è ormai consueta. L’ultima Biennale Arte di Venezia ha visto presentarsi Tod’s all’Arsenale, e Burberry intervenire come main sponsor per il Padiglione britannico; Art Basel Paris ha visto misurarsi Louis Vuitton e Miu Miu: il primo all’interno del Grand Palais, il secondo come main partner per le manifestazioni esterne della fiera d’arte contemporanea leader nel mondo. E, per tornare a casa nostra, pensiamo all’ardita operazione di alcune maison di utilizzare come testimonial i candidati all’ultima edizione del Premio Strega.

Roland Barthes ci insegna che l’abito non è mai solo utilitaristico: è un linguaggio, un sistema di segni che costruisce identità e comunica desideri. Portare la moda nelle sale delle grandi istituzioni museali significa amplificare questo linguaggio, inscrivendolo in una dimensione storica e filosofica che ne ridefinisce i confini. Ma non nascondiamolo, potrebbe esserci un rischio: ogni forma d’arte deve lottare per mantenere la propria specificità, e il pericolo della contaminazione è quello di perdere la propria voce, come avvertiva Susan Sontag.

Non possiamo ignorare il contesto più ampio in cui si colloca la mostra al Louvre: viviamo in un’epoca di nostalgia, dove il passato diventa un rifugio sicuro contro le incertezze del presente. Dai remake cinematografici alla riscoperta del vinile, il culto degli archivi domina la cultura odierna: quelli dei grandi brand di stile, in particolare, funzionano come antologie visive del passato, luoghi della memoria collettiva che fanno sognare proprio perché evocano un’epoca percepita come meno caotica e disillusa di quella attuale. Una volta vestivano regine, star del cinema o anonime clienti dalla discrezione proverbiale quanto la loro ricchezza, e tornano oggi come simboli di un’età dell’oro. Le file interminabili per mostre che celebrano abiti fantastici d’atelier suggeriscono che il passato offre una via di fuga dall’alienazione del presente. È davvero nostalgia o un modo per reinterpretare ciò che è stato? Alla fine, non importa. Forse, più che gli antichi tesori di grandi artisti, questi abiti sono lanterne magiche che proiettano su muri grigi il sogno di un mondo che non c’è più. Un mondo dove i tessuti parlavano, i dettagli non erano superflui e ogni piega raccontava storie di mani sapienti e di immaginazione sconfinata. La moda, in questo senso, diventa il più grande escapismo che la nostra epoca possa concedersi: un ponte tra la realtà cruda e la fantasia pura, un’eco dell’eterno nella forma fuggevole di un abito. E allora, forse, non importa chi rincorre chi. Come in ogni altra cosa della vita, la moda nei musei può ampliare il nostro modo di vedere l’arte e la cultura, ma solo se questo dialogo rimane autentico, non un’operazione di marketing mascherata. Perché mentre osserviamo una giacca di Comme des Garçons accanto alla Gioconda, non stiamo solo guardando un’opera importante: stiamo vagheggiando un’altra possibilità, con l’incanto come unico filo conduttore. Come scrive il poeta brasiliano Ferreira Gullar, “L’arte esiste perché la vita non basta”. E forse, anche la moda.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese