«È necessario un cambiamento profondo della mentalità: bisogna capire che, quando si ha a che fare con un pubblico ministero, quest’ultimo espone la sua tesi accusatoria, ma non è l’unica tesi in gioco». A dirlo è Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e già giudice della Corte costituzionale.
Professore la separazione delle carriere è davvero necessaria?
È un passaggio decisivo. Oltre a costruire due Consigli superiori della magistratura separati, servono regole da introdurre tramite legge ordinaria. Nell’articolo 106 della nuova legge non si dice nulla riguardo ai concorsi separati, che sarebbero invece essenziali.
Se si vogliono creare due organizzazioni distinte, i loro componenti non dovrebbero mai incontrarsi, e le regole sulla formazione iniziale e permanente dovrebbero essere differenziate per i giudicanti e i requirenti. Se tutto ciò si concretizzasse sarebbe il modo migliore per realizzare l’idea fondamentale della terzietà del giudice.
L’obiettivo è allontanare il giudice dalla cultura del pubblico ministero, e non mantenere il pubblico ministero nella cultura “della giurisdizione”, perché la cultura della giurisdizione, se intesa seriamente, deve appartenere solo al giudice.
L verbale di un magistrato che ha aderito allo sciopero reca proprio questa dicitura: “Il pubblico ministero … è il primo giudice che il cittadino incontra”.
È proprio questo il punto. C’è una cultura che proviene da un passato autoritario, in cui la giurisdizione era vista come una prerogativa comune sia del giudice che del pubblico ministero. Ci sono anche sentenze della Corte costituzionale degli anni ’ 70 che sostenevano questa visione. Ma questo approccio dà l’idea di una giurisdizione che inizia con l’azione del pm e trova una risposta “coerente” da parte del giudice, quando invece il processo accusatorio è basato sul contraddittorio tra due parti che si pongono sullo stesso piano di fronte a un giudice terzo. Se il pm è davvero il “primo giudice”, ciò ha delle implicazioni negative. Perché l’atto del pubblico ministero acquisisce una dignità diversa da quello del difensore. E allora essere raggiunti da un atto investigativo o da un’informazione di garanzia è già una sorta di condanna, tant’è che l’informazione si adegua a questo aspetto e considera l’indagato sostanzialmente già colpevole. Il processo accusatorio dovrebbe invece essere il luogo in cui la colpevolezza o l’innocenza vengono determinate dal giudice, in base a ciò che viene detto dalla difesa e dall’accusa. Le regole giuridiche quindi sono solo una parte del lavoro, è necessario un cambiamento profondo della mentalità. C’è la difesa e poi c’è il giudice. Purtroppo, nel sentire comune, questa distinzione non viene più fatta e questo è il vero problema culturale che dobbiamo affrontare.
I magistrati inquirenti sottolineano spesso che, rappresentando essi lo Stato, non possono essere messi sullo stesso piano della difesa.
I magistrati inquirenti sono una parte pubblica, ma restano comunque una parte. Certo, rappresentano la pretesa punitiva dello Stato, con un potere enorme nel procedimento e nel processo. Tuttavia, questo potere deve essere organizzato e strutturato in modo tale da garantire una posizione di parità tra accusa e difesa, che tutela il diritto fondamentale alla libertà del cittadino, di fronte al giudice terzo. È vero che questa simmetria potrebbe non essere completa e la giurisprudenza costituzionale lo afferma anche chiaramente, riconoscendo una certa asimmetria. Tuttavia, bisogna insistere affinché questa simmetria venga ricercata il più possibile, proprio in nome del giusto processo.
L’Anm ha scioperato sostenendo di voler difendere i diritti dei cittadini e la Costituzione, che a loro dire sarebbe intaccata da questa riforma.
Mi sembra una posizione strumentale. Nella Costituzione c’è anche l’articolo 138, che consente alle maggioranze parlamentari qualificate, eventualmente tramite un referendum popolare, di apportare modifiche. Inoltre, l’articolo 111 parla di imparzialità e terzietà del giudice. Si possono avere diverse interpretazioni su cosa significhino imparzialità e terzietà, ma non è affatto infondata la tesi di chi sostiene che la terzietà si realizzi con una modifica che tocchi la posizione del pm nell’ordinamento giudiziario, per renderla conforme al suo ruolo di parte nel processo.
Il timore è che, con questa modifica, il pm possa essere attratto nella sfera di influenza del potere esecutivo. È un pericolo reale?
Non vedo nulla che suggerisca una conseguenza di questo tipo. In teoria, l’obbligatorietà dell’azione penale rappresenta una garanzia forte di indipendenza per il pm, ma spesso resta solo un’affermazione formale, perché in pratica vengono fatte molte scelte discrezionali nelle procure. Un problema serio, quindi, è come gestire questa discrezionalità e a chi il pm debba rispondere. La domanda è: cosa perseguire prima? La risposta non ha a che fare con l’Esecutivo, ma con la volontà del Parlamento. Forse bisognerebbe lavorare su questo, chiarendo che nessuno vuole mettere in discussione l’indipendenza del pm, né tanto meno assoggettarlo al ministro della Giustizia. Non credo che questo sia previsto nei programmi di nessuno, almeno per quanto ne so. Dal punto di vista costituzionale, ritengo che ciò sarebbe comunque impossibile, soprattutto se l’articolo 112 rimane come è attualmente. Questa norma impedisce l’introduzione di direttive o ordini sulle attività delle procure da parte del potere esecutivo.
Il tema che suscita maggiore insofferenza all’interno della magistratura associata è quello del sorteggio per l’elezione dei membri del Csm. È una soluzione realmente coerente per un organo costituzionale?
Molti magistrati, che conosco, affermano che se siamo arrivati alla previsione del sorteggio, è colpa loro. Non si può accusare la politica di voler punire la vita associativa delle correnti. Negli anni si è capito che nessuna legge elettorale riusciva a impedire che il ruolo dominanti delle correnti nel Csm. Le correnti, nate con altre prospettive, sono diventate luoghi di gestione delle carriere. Certamente non è elegante che un organo costituzionale – o addirittura tre, in questo caso, i due Csm e l’Alta Corte – abbia una composizione in parte determinata dal caso. D’altro canto, un magistrato, che ha la responsabilità di prendere decisioni cruciali riguardanti la vita e la libertà dei cittadini dovrebbe portare nel proprio bagaglio formativo anche la capacità di occuparsi dell’ordinamento giudiziario e dei propri colleghi. Naturalmente, si potrebbe pensare a forme di temperamento, ma credo che sia importante riflettere sulle circostanze che ci hanno portato a questo punto, cosa che i magistrati non mi pare abbiano fatto fino in fondo.
Anche l’Alta Corte è un punto dolente per i magistrati. È la soluzione giusta per evitare conflitti di interesse e garantire l’imparzialità?
Credo sia una scelta coerente con l’impianto costituzionale. È vero che la giustizia disciplinare di solito è una giustizia tra pari, come accade negli ordini professionali. Tuttavia, nel caso dei magistrati, parliamo di professionisti che gestiscono la vita, i beni e la libertà dei cittadini e sono responsabili non solo nei confronti dell’ordine giudiziario, ma nei confronti dell’intero ordinamento costituzionale, come evidenziato dal fatto che, per Costituzione, il titolare dell’azione disciplinare è il ministro della Giustizia. Inoltre, gli illeciti disciplinari non sono determinati dallo stesso ordine giudiziario, ma stabiliti dalla legge, ossia dal Parlamento.
Quindi non spetta al Csm stabilire tali illeciti o esercitare un “magistero disciplinare”. Quindi con questa riforma riusciremo ad arrivare effettivamente a quello che voleva Vassalli?
Io me lo auguro. E voglio aggiungere una cosa: vedo i magistrati invocare il discorso di Calamandrei sulla Costituzione sui gradini dei Tribunali, ma dimenticano, forse, che Calamandrei, in qualità di membro della Costituente, aveva proposto l’istituzione del cosiddetto Procuratore generale commissario della Giustizia, nominato dal Presidente della Repubblica, su proposta della Camera dei Deputati, in una terna eletta dalla stessa Camera. Il suo ruolo sarebbe stato quello di garantire l’uniformità dell’azione penale e, secondo Calamandrei, avrebbe anche dovuto prendere parte al Consiglio dei ministri per discutere delle questioni relative alla giustizia. Su questi temi, Calamandrei la pensava in un modo che nemmeno Nordio avrebbe mai osato immaginare.
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