«Piccole e medie imprese del Veneto a un bivio: fare rete con le big»

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Piccolo non è (più) bello. Soprattutto se si parla di imprese e sfide globali. Dove il Veneto delle Pmi rischia di trovarsi tagliato fuori. A riflettere sulle prospettive future del mondo produttivo della nostra regione è Giulio Buciuni, quarant’anni, trevigiano di nascita – opitergino per la precisione – professore associato in Entrepreneurship & Innovation (Imprenditorialità e Innovazione) presso il Trinity College di Dublino, dove dirige il Master in Entrepreneurship.

Le sue ricerche riguardano la geografia dell’innovazione, lo sviluppo di ecosistemi imprenditoriali e l’innovazione nelle piccole e medie imprese. Nel 2023 ha pubblicato “Periferie competitive” per Il Mulino, un libro che esplora i modelli di innovazione mettendo in luce il ruolo delle aree periferiche nell’economia globale. Nel 2024, sempre per Il Mulino, ha dato alle stampe “Innovatori Outsider”, mettendo in evidenza come l’imprenditorialità del Paese si trovi oggi a un bivio: rinnovare il proprio Dna o affrontare un lento declino. Giulio Buciuni è anche co-fondatore di Blue Chapter, una startup specializzata in education technology in India.

Professor Buciuni, ricorda l’episodio che l’ha incuriosita per la prima volta rispetto al mondo dell’impresa e dell’innovazione?

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Io sono di Oderzo, quindi sono cresciuto in un territorio con molte imprese. Quando ero adolescente avevo un motorino e per andare a “smontare” i motorini con i coetanei, andavamo nel capannone di un’impresa manifatturiera del papà di un amico. C’erano tutti gli attrezzi per smontare e montare i motorini. Forse è allora che mi sono detto: “Caspita, ma che bello che è avere un’impresa”. Non una partenza nobilissima direi…

…alla fine però non si è occupato di una sola impresa, ma di tutte le imprese. Qual è secondo lei il più grande cambiamento dell’imprenditorialità negli ultimi dieci anni? E quale è all’orizzonte quella che cambierà la vita dell’impresa nei prossimi dieci?

C’è una prospettiva strutturale che riguarda un cambiamento in atto da vent’anni che di fatto si può riassumere con l’intersezione tra la tecnologia e la globalizzazione, a lato della quale è in corso un cambiamento congiunturale con la crisi del mercato europeo, della Germania in particolare che fino a ieri era il vero locomotore d’Europa. È questa intersezione fra un cambio strutturale che viene da lontano ed una situazione contingente che sta creando delle grosse difficoltà alle imprese tradizionali italiane.

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Le imprese stanno vivendo un momento sicuramente molto delicato.

Qual è la strategia più importante che le Piccole Medie Imprese (Pmi) venete devono mettere in atto se vogliono competere a livello globale da qui al 2050?

Per il futuro se parliamo di una Pmi manifatturiera è un conto, se parliamo di una grande impresa è un altro. Per la tipologia di impresa cui siamo più vicini noi in Veneto, ossia la Pmi manifatturiera, la prima strategia secondo me è quella di provare ad uscire dal ruolo di subfornitori di catene dove sono altri quelli che intercettano il vero valore aggiunto. Un modo di operare che ti fa girare con marginalità risicate e che ti fa assomigliare alla regina di cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie: sempre di corsa per rimanere al punto di partenza.

Quali ritiene siano le potenzialità imprenditoriali del Veneto/Triveneto, considerate le sue caratteristiche economiche e culturali? Quali i settori più promettenti?

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In Veneto e in Triveneto sicuramente abbiamo settori più promettenti di altri: tutto l’ambito della farmaceutica, per esempio, o quello della meccanica e della strumentazione che sono settori che ancora registrano performance positive. Secondo me il ragionamento da fare è proprio sulle verticalità industriali dove noi oggi abbiamo un vantaggio competitivo nella produzione. Prendiamo un settore storico, quello del tessile. Oggi il tessile in Triveneto quasi non c’è più, così come quello dell’arredamento che ha scelto la strada della grande impresa, come Lago per le cucine. Sempre nell’arredo: è vero che abbiamo un grande hub produttivo di Ikea, diffuso in tutto il Pordenonese, con società come Mediaprofili che fattura un miliardo di euro all’anno. Però il valore che si crea in questa filiera, se sei un subfornitore, è francamente molto basso perché non determini tu i prezzi di vendita. La strategia dovrebbe quindi essere quella di “isolare” i verticali industriali dove abbiamo vantaggio competitivo e soprattutto fare quadrato attorno alle imprese medie e grandi che sono i veri player che fanno la differenza nell’economia della conoscenza globale.

Quali città Venete possono ambire ad un ruolo di “periferie competitive”, luoghi che hanno una loro specificità da esportare nel mondo, secondo i suoi criteri? Venezia è “fuori dai giochi”?

Chi legge “Periferie competitive”, il libro che ho scritto con Giancarlo Corò, capisce che la nostra lettura economica ridisegna la geografia dell’innovazione e posiziona in contesti di periferia, in una posizione cioè di marginalità, città insospettabili. Il concetto centro-periferia è un concetto che da sempre si evolve nel tempo. Durante la Repubblica Serenissima, intorno al 1500, Venezia era l’equivalente della Silicon Valley di oggi. Lo ha scritto l’Economist di recente. Nessuno allora avrebbe mai detto che Venezia in quel momento storico era una periferia del mondo. Lo era Milano. Oggi però come disegniamo il centro? Il centro lo disegniamo attorno a quelle grandi città superstar dentro le quali corre l’innovazione moderna: le grandi città americane, asiatiche o europee, con Milano unica italiana tra queste ultime. Rispetto a questo nucleo di grandi città è evidente che il Veneto diventa periferia. Fatta questa premessa chi ce la può fare oggi è Padova, che ha una università con una grossa componente tecnico scientifica, ingegneria con 15.000 studenti iscritti; ha inoltre una geografia centrale nella mappa del Triveneto, è relativamente vicina a un aeroporto molto importante ed ha un nucleo di multinazionali forti. La vitalità di Padova può rappresentare l’occasione di Venezia per uscire da una condizione di sviluppo economico che sembra abbastanza segnata.

I giovani imprenditori sono sempre meno e, quelli che ci sono, sono sempre meno giovani. C’è modo di invertire la rotta?

È chiaro che l’inverno demografico è un problema. Tuttavia se consideriamo il flusso in uscita dei giovani di qualsiasi Paese Europeo, i dati sono in linea con quelli italiani. Il nostro problema è che noi attiriamo solo gente che ha profili professionali molto bassi. La vera sfida è rendere il nostro territorio attrattivo per l’ingegnere svedese e per il chimico canadese, perché è questa la gente che non viene a lavorare in Veneto, che pure è un luogo bellissimo, con posti incantevoli e una cucina gustosa. Purtroppo, il Veneto, con qualche piccola eccezione, non è oggi percepito come un luogo dove c’è una tensione sociale che guarda al futuro. Le nostre imprese non sono attrattive per personale qualificato internazionale perché non hanno salari competitivi, faticano a pagare un dipendente 60, 70, 80 mila euro all’anno come quelle dei paesi competitivi in Europa. E qui si ritorna all’inizio: abbiamo creato un sistema basato su un reticolo di Pmi manifatturiere che non sono quasi mai leader di filiera ma sono piuttosto un esercito di micro, piccoli artigiani, cioè fornitori che non hanno la forza economica per investire in capitale umano in tecnologia.

Quale consiglio darebbe ad un giovane che sta pensando di avviare una nuova impresa? 

Il problema è che i giovani non vogliono più fare impresa. Paradossalmente le risorse ci sono. Ma i fondi di venture capital, lo scrivo nell’ultimo libro, si attivano e si insediano in corrispondenza di luoghi dove si concentrano start up innovative. L’Irlanda 20 anni fa era un paese particolarmente povero. Oggi però a Dublino si iniziano a strutturare fondi di venture capital con capacità di investimento in nuove imprese anche di 20 milioni di euro, che è una novità. Perché si arriva a questo? Si arriva a questo perché nel frattempo si è creata una base di start up locali che comincia a chiedere soldi e quelli che prima emigravano nella Silicon Valley ora possono restare in Irlanda. «Tornate a fare impresa e noi vi spieghiamo come si fa», questo va detto ai ragazzi delle scuole superiori e a quelli dell’università. E togliamo una volta per tutte lo stigma sociale per cui chi fa impresa ancora oggi è visto come qualcuno che non ha a cuore il bene comune. Ci vuole un grande e nuovo “piano Marshall” per ri-parlare e ri-fare impresa.

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Perché quando è in Italia ha scelto di vivere a Milano e non in qualche città del Veneto?

Perché Milano è un luogo dove si parla di futuro, si parla di modernità si parla di ricerca, si parla di rilevanza. Milano è un luogo rilevante. Noi in Veneto ci crediamo rilevanti ma un giovane, ventenne, trentenne – e non vale soltanto per la generazione Z ma anche per gente della mia età – rischia di trovare il Veneto rilevante soltanto come luogo del “buon ritiro”, quando cioè hai fatto fortuna e non tieni più il ritmo di città come Milano e vuoi dare ai tuoi figli un po’ di tranquillità. Ma può essere questa la lettura di un luogo che si vuole pensare ancora attrattivo?

Fabio Poles



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