“In Italia il lavoro conta zero, la destra non ha idea di come alzare i salari”

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«Il referendum è un’occasione per rilanciare un grande patto per la qualità del lavoro e della produzione». «Se vogliamo bene all’Europa dobbiamo dire alcune verità, ma l’unico segno di vita di Von der Leyen è l’appello al riarmo. La parola pace regalata a Trump e ai suoi sodali criptofascisti: un capolavoro di stupidità»

Arturo Scotto, capogruppo in Commissione Lavoro alla Camera e membro della Direzione nazionale Pd, per la stampa mainstream e per alcune componenti del suo stesso partito Elly Schlein sarebbe subalterna alla Cgil di Maurizio Landini.
Sciocchezze. I 5 referendum mettono chiaramente a fuoco rilevanti problemi della questione sociale. Proprio quello che teme la destra, che gioca a nascondino con le condizioni materiali del paese. Ha fatto bene Elly Schlein a mobilitare il Pd in questa sfida, senza chiedere abiure e rivendicando coerenza con i suoi due anni di segreteria. Il Pd è tornato finalmente a parlare con larghi strati del mondo del lavoro. Nel merito: cosa è diventato il lavoro in questo paese? Quanto conta, quanto pesa? Nelle condizioni attuali non credo di esagerare affermando: quasi più niente. Abbiamo vissuto una lunga stagione di controriforme che lo hanno frammentato avvilendo il potere contrattuale dei sindacati. Dividere il lavoro ha reso l’Italia stessa un paese meno unito: un sindacato debole genera una democrazia fragile.
La Presidente Meloni lo ha detto chiaramente: il sindacato che pratica il conflitto è tossico, evocando un modello corporativo nelle relazioni sociali. Nostalgia canaglia, insomma. La verità è che è nocivo un sistema economico che genera lavoro precario, crisi climatiche, burn out, sotto salario, connessione infinita, turni di lavoro spesso brutali. Il Pd ha posto la necessità di un salario minimo mettendo l’anima nelle piazze e in Parlamento. Il nesso tra precarietà e salari è strettissimo. Un mercato del lavoro che si è trasformato in una giungla di persone ricattabili produce salari bassi e apatia delle imprese. Il nostro capitalismo si impantana nella fascia bassa della competizione globale. Dunque, il referendum ripristina diritti perduti che sono in realtà modernissimi, ma diventa anche un’occasione per rilanciare un grande patto per la qualità del lavoro e della produzione.

Scrive Alessandro De Angelis su La Stampa: “...E allora meglio occuparsi di Jobs Act, provvedimento di dieci anni fa, di cui non importa più nulla a nessuno, anche perché è stato smontato a suon di sentenze dei giudici. C’è il referendum, il quorum è una chimera, ma Elly Schlein si schiera a fianco di Landini, con tanto di rumorosi mugugni nel suo partito che il jobs act lo votò”. Siamo ad un nuovo capitolo del tafazzismo che martella la sinistra?
Il tafazzismo lo ha imposto a lavoratrici e lavoratori innanzitutto chi l’articolo 18 l’ha tagliato. Perché in nessun manuale di economia politica c’è scritto che eliminare l’obbligo di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa favorisce la crescita economica di un paese. Appunto: persino la Corte Costituzionale ha demolito il Jobs Act! L’articolo 18 è soprattutto una questione di potere che consente di tenere un po’ più in equilibrio gli interessi dell’impresa e quelli del lavoro. Che – giova ricordarlo – non coincidono automaticamente. Il referendum promosso dalla Cgil interviene anche sull’eliminazione delle causali nei contratti a termine e sulla sicurezza sul lavoro. La precarietà rende il lavoro rischioso per la salute e per la vita. La liberalizzazione dei subappalti a cascata è parte della stessa follia che il referendum vuole cancellare. Chiedere di imporre alle imprese la responsabilità lungo tutta la catena dell’appalto non equivale ad evocare il socialismo, ma affermare civiltà. Significa che nel cantiere dell’Esselunga a Firenze dove sono morti cinque operai non possono sussistere 32 subappalti con il committente deresponsabilizzato se, per mansioni identiche, ci sono lavoratori inquadrati con contratti diversi: dal florovivaistico al metalmeccanico fino all’edile. Nessuno deve poter risparmiare sulla sicurezza di chi lavora. Ma capisco che ci sia una stampa a cui interessa poco. Occuparsi della questione sociale costa fatica, approfondimento, conoscenza della realtà e soprattutto non fa vendere copie.

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A proposito di dibattito interno e di mediazioni forzose: alla fine di un movimentato dibattito interno, anche ai gruppi parlamentari, il Pd ha deciso di astenersi sul pdl sulla “Partecipazione al Lavoro”.
Della partecipazione è rimasto poco più che il titolo. Dei 22 articoli originari e 76 commi, dopo i tagli della destra si è arrivati a un testo di 15 articoli e 30 commi. Le quattro forme di partecipazione previste – finanziaria, gestionale, organizzativa e consultiva – non sono obbligatorie a differenza del modello tedesco. Non c’è un ruolo sindacale per selezionare chi partecipa agli organismi previsti – dal cda ai consigli di sorveglianza piuttosto che agli enti bilaterali – né esiste il diritto di interdizione dei rappresentanti designati dentro questi luoghi. Se l’azienda decide di sottoporre un piano di ristrutturazione non si può esercitare un veto finalizzato alla riapertura di una trattativa. Infine, scompare 14 volte la parola contrattazione collettiva. Non è un fatto formale perché affida agli statuti d’impresa, non ai contratti, la possibilità di attivare la partecipazione. In parole povere la partecipazione diviene una concessione, non un diritto esigibile. Poco o nulla a che fare con l’attuazione dell’art. 46. Ci siamo astenuti perché siamo riusciti a evitare un ulteriore stravolgimento del principio della rappresentanza che avrebbe spianato la strada ai contratti pirata e ai sindacati gialli. È l’ulteriore dimostrazione che serve con urgenza una legge che misuri chi è rappresentativo e chi no nel mondo del lavoro.

Che in Italia crescano le disuguaglianze e il malessere sociale è documentato da rapporti, sondaggi, di fonti diverse e non certo estremiste. Sul banco degli imputati finiscono quelli che cercano di trasformare quel malessere in “rivolta”. Una colpa?
Questa destra non ha una mezza idea di come alzare i salari dei lavoratori. 6,6 milioni sono in attesa di rinnovo contrattuale da anni, altri andranno a scadenza nei prossimi sei mesi. Nel frattempo, nel pubblico impiego dividono i sindacati e riconoscono solo una parte del potere d’acquisto perduto. Come dire, prendetevi quel poco che possiamo darvi e continuate a stringere la cinghia. Tant’è che salutano come una vittoria aumenti del 6% a fronte di un’inflazione che si è mangiata i salari del 17%. Come sempre. Sono teneri con gli evasori o con chi fa extraprofitti, mentre a chi paga le tasse fino all’ultimo centesimo chiedono sacrifici. Purtroppo, in questo caso è lo Stato ad essere un cattivo datore di lavoro perché programma direttamente la riduzione del potere d’acquisto dei suoi dipendenti. Aggiungo che il nuovo “cuneo fiscale” è una truffa che dimostra la totale inaffidabilità della destra: i redditi fino ai 35000 euro subiscono tagli significativi, tra 8500 e 9000 euro si perdono addirittura 1200 euro. Alla riduzione delle buste paga rispondono con un bonus bollette, schizzate senza controlli negli ultimi due anni. Che si lamentino della parola “rivolta” risulta abbastanza patetico. Come avrebbe detto il grande Totò: “ma mi faccia il piacere!”

Tutto questo mentre l’Europa è sconvolta dal “ciclone Trump”.
Il manipolo di gangster che si è impadronito della Casa Bianca ha inferto un’umiliazione inaccettabile a Zelensky. Sembrava il saloon di un vecchio film western.
Uomini d’affari con le rivoltelle sul tavolo discutevano del destino delle terre rare ucraine in mondovisione: ti ho prestato i soldi per fare la guerra, ora me li restituisci con gli interessi. È un capitalismo predatorio, in realtà non nuovo alla tradizione yankee come ben sanno, ad esempio, i latinoamericani. D’altra parte, il video postato da Trump su Gaza lo conferma. Dollari distribuiti a pioggia da Elon Musk, odalische seminude a fare da ornamento e vecchi criminali di guerra – maschi, panciuti e sbavanti – che sorseggiano cocktail sulla terra dove sono seppelliti ventimila bambini. Perfino un’offesa alla pornografia! Indignarsi non basta: o si abbozza un’altra idea di mondo possibile, oppure è miope attestarsi sulla difesa di quello che c’era prima. La crisi delle democrazie formali non possiamo affrontarla come facevano i liberali in pieno fascismo appellandosi alle prerogative dello Statuto Albertino. Perché Trump è la conseguenza di un fallimento sistemico, non la causa. Se vogliamo bene all’Europa dobbiamo dire alcune verità: non può funzionare un’entità politica dove il principio di unanimità blocca tutto, come ha scritto Elly Schlein. Oggi abbiamo bisogno di misure anticicliche annuali, modello Next Generation Eu. Debito comune per sostenere il modello sociale europeo. Purtroppo, l’unico segno di vita recente manifestato dalla Presidente von der Leyen è l’appello a “riarmare” l’Europa a prescindere da una politica estera comune. Le élite europee non offrono alcuna lettura autocritica sul perché siamo arrivati qui, sulla rinuncia dell’Ue a usare la leva diplomatica accanto al principio di deterrenza nei confronti di Putin, inseguendo l’illusione di alcuni settori dei democratici americani secondo cui si poteva persino vincere la guerra. Fino al paradosso di regalare la parola pace a Trump e ai suoi sodali criptofascisti. Un capolavoro di stupidità e improntitudine. Vorrei inoltre ricordare che un’economia di guerra è esattamente l’acqua nella quale la destra nuota meglio. Da sempre. Perché società che si militarizzano coincidono con società più autoritarie.



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