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Migrazioni e cambiamento climatico sono stati posti progressivamente al centro dell’agenda politica dei singoli Stati, così come a livello europeo e internazionale. Nonostante costituiscano oggi due temi centrali, su cui spesso si vincono o perdono le elezioni, c’è ancora poca chiarezza sul nesso tra cambiamento climatico e migrazioni, come il primo può impattare sulle seconde e in presenza di quali fattori, su chi sarà (e quanti) in futuro costretto a lasciare il proprio Paese per condizioni climatico-ambientali insostenibili e come gli Stati debbano gestire questo tipo di migrazione.
Innanzitutto, gli studi ci dicono che i movimenti migratori generati da fattori climatico-ambientali in futuro saranno prevalentemente di natura interna, ossia spostamenti all’interno dei confini nazionali dei rispettivi Stati. La Banca Mondiale prevede che entro il 2050, in assenza di adeguate misure di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, fino a 216 milioni di persone potrebbero diventare migranti climatici interni e identifica l’America Latina, l’Africa e il Sud-Est Asiatico come le regioni più esposte a tale scenario. Tuttavia, non si possono escludere migrazioni a carattere internazionale, anche se in misura decisamente minore, come dimostrato dal riconoscimento di forme di protezione per cause climatico-ambientali di migrazione da parte di Corti e Tribunali in diverse regioni del mondo, inclusa l’Europa e l’Italia.
Il livello di vulnerabilità al cambiamento climatico non è dettato solamente dalle caratteristiche dello Stato in cui ci si trova. Al contrario, intervengono innumerevoli fattori sia esterni (o contestuali) che interni (o individuali) che possono giocare un ruolo più o meno rilevante nel determinare la necessità o l’urgenza di migrare. I primi includono, ad esempio, la presenza di conflitti o tensioni sociali. Se da un lato il cambiamento climatico può esacerbare tensioni politiche e portare ad un’escalation della violenza (ad esempio, per il controllo di risorse che sono scarse o strategiche oppure nell’ambito della strumentalizzazione di risorse naturali), dall’altra i conflitti possono produrre danni ambientali irreparabili, come nel caso della contaminazione del suolo tramite ordigni esplosivi e mine. Secondo l’UNHCR, oltre il 70% dei rifugiati e degli sfollati del mondo proviene dai Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico, in particolare Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Siria e Yemen.
La vulnerabilità umana causata dal cambiamento climatico
I secondi riguardano invece quei fattori di vulnerabilità individuale che, intrecciati con il cambiamento climatico, ne aggravano ancora di più gli effetti. Ad esempio, il cambiamento climatico sta rendendo i disastri sempre più frequenti e intensi. Questi possono causare la perdita improvvisa di mezzi di sussistenza, proprietà, raccolti, case, lavoro e vite umane. Le persone affette da discriminazione, marginalizzazione o esclusione sociale, così come le persone meno abbienti e che vivono in contesti remoti, sono tra quelle che subiscono più gravemente gli effetti dei disastri.
Un esempio concreto riguarda il Bangladesh, uno dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico al mondo. C’è chiara evidenza del fatto che le donne in Bangladesh sono più vulnerabili al cambiamento climatico rispetto alla controparte maschile in virtù di costrutti sociali di genere che limitano i diritti e la libertà delle donne. Inoltre, recenti studi dimostrano che molti migranti giunti in Italia sono fuggiti dal Bangladesh dopo aver perso tutto a seguito di un disastro e che, a causa della povertà estrema causata dal cambiamento climatico e dall’assenza totale di assistenza da parte dello Stato, non hanno avuto altra scelta se non quella di affidarsi a trafficanti nella falsa speranza di poter trovare un lavoro ben remunerato all’estero, finendo invece per divenire vittime di tratta e di sfruttamento.
La complessità del fenomeno rende la risposta politica più ardua. Ad oggi, la maggior parte degli Stati è riluttante a riconoscere il nesso tra cambiamento climatico e migrazione e a fornire adeguati strumenti di protezione. Questo significherebbe infatti aumentare le responsabilità di accoglienza e protezione in capo agli Stati di destinazione senza aver ben chiaro quante persone potrebbero essere costrette a lasciare il proprio Paese in futuro. Tuttavia, vi sono eccezioni estremamente rilevanti. L’Italia, ad esempio, è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a riconoscere molteplici forme di protezione per cause climatico-ambientali di migrazione fin dal 1998. L’intervento legislativo si accompagna ad un’applicazione consolidata e attiva da parte delle autorità giudiziarie che hanno nel tempo riconosciuto tutti gli status di protezione per migranti ambientali disponibili nell’ordinamento italiano. La forte risposta normativa e giuridica italiana rende il nostro Paese un esempio unico e innovativo che potrebbe ispirare altri Paesi a regolamentare il nesso tra migrazione e cambiamento climatico.
Gli argomenti trattati in questo articolo sono esplorati in profondità nel podcast “Clima e migrazioni”. Attraverso interviste con esperti e analisi dettagliate, il podcast offre una panoramica completa su come i cambiamenti climatici, disastri e altri fattori climatico-ambientali influenzino i flussi migratori e sulle sfide che attendono i paesi di origine e destinazione.
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